Legàmi: Statue

Le moltitudini di azzurro del cielo le si riversavano addosso, come una cascata, colorandole il grigio della divisa e quello più scuro dei suoi pensieri. Ancora non sapeva per quale motivo fosse lì, e probabilmente non l’avrebbe scoperto per ancora molto tempo. Forse mai. Ma intanto doveva stare in quel luogo solitario, a scontare una colpa sconosciuta, o forse solo dimenticata. Le avevano detto che presto sarebbe uscita, che si trattava solo di compilare le ultime carte e poi sarebbe stata di nuovo libera. Ma già una volta era arrivata al limite, le era sembrato di risentire il chiasso colorato delle strade e aveva rivisto, più nitidi che mai, gli occhi di Alex, nitidi come non li aveva mai visti, nitidi come non erano. Nella sua mente li vedeva semplicemente così come voleva vederli, come tutte le cose che continuano a vivere, diverse, nei ricordi. E dolci nel suo ricordo la ascoltavano dire di nuovo: “Non riesco a immaginare una vita in cui tu non ci sia!”.

Ma non era uscita.

«C’è stato un errore. Non possiamo liberarti».

«Un errore? Un errore? L’errore è che io sia qua dentro, non ho fatto niente, fatemi uscire!».

Aveva davvero perso il controllo e si era messa a sbraitare fino a spezzarsi la voce. Qualcosa le si era rotto dentro, ne aveva avuta la percezione fisica, ed era letteralmente impazzita. Tutto il senso che poteva trovare nell’universo, che prima di finire lì dentro trovava in ogni cosa senza sforzo, ora non aveva rapporto con la realtà dei fatti. Il senso non esisteva più e, retroattivamente, non era mai esistito. Aveva solo sedici anni e non aveva fatto niente. Semplicemente un giorno erano venuti a prenderla, mentre usciva da scuola, davanti a tutti: alle sue amiche, ad Alex, ai professori che ammutoliti come statue di cera osservavano la scena, ed era come se non ci fossero. Per un istante lei si era sentita circondata da sconosciuti: tutte quelle persone che erano la sua vita si erano trasformate negli stupidi spettatori della cattura di un’innocente. Aveva smesso di respirare e si era svegliata lì, in quella cella senza cielo, cielo che solo durante l’ora d’aria poteva riversarle addosso la sua moltitudine di azzurri, facendo di tutto per rincuorarla e alleviare quel tremendo dolore di solitudine.

Alex non aveva fatto niente per farle sentire la sua vicinanza. Ogni volta che usciva nel cortile, dove tutti i prigionieri potevano ritrovarsi e respirare l’ossigeno degli altri, lei tentava di nascondersi e, facendo finta che nessuno la vedesse, raggiungeva l’angolo di muro più estremo, appoggiava l’orecchio e sussurrava parole d’amore alla pietra, immaginando che oltre ci fosse Alex appoggiato come lei, a sentirla. E dietro alle spalle di Alex la strada, le piante, i giardini, i fili d’erba che crescono intorno alle statue e che rimangono sempre più lunghi. E poi il mercato rosso, la piazza centrale con le giostre e la sabbia arancione, vorticante nel vento, che dava alle volte un po’ fastidio, quando bruciante raggiungeva gli occhi ed entrava nella gola. Continuava a sussurrare fino a che non aveva più voce, e poi si fermava semplicemente a pensare che la gente non dovrebbe mai smettere di scambiarsi parole d’amore, anche quando sembra tutto più importante e meno stupido, anche quando ci si crede un po’ di meno. Tentava di dirlo al suo Alex immaginario, ma davvero non aveva più forza e allora cominciava a piangere senza fare rumore, perché aveva paura che lui se ne andasse a non sentirla più. Poi si guardava le dita lunghe e bianche e si faceva tenerezza da sola e non c’era sensazione al mondo più brutta di quella. Alex non era dall’altra parte del muro e chissà quanti altri muri c’erano tra lei e la piazza centrale con la sabbia arancione e fili d’erba lunghi intorno alle statue. Ammutolita e attonita si girava a guardare il cortile della prigione e si accorgeva che tutti potevano vederla, lì così rannicchiata, e percepiva del calore inspiegabile in quegli sguardi soli e tristi, più veri di altri mille sguardi della sua vita di prima. Si ricordava di come l’avevano guardata quando era stata presa e si rendeva conto di sentirsi inspiegabilmente più amata dentro quello spazio di polvere grigia: persone sconosciute meno sconosciute di quelle che un tempo conosceva.

Erano più o meno una trentina gli altri ragazzi e le altre ragazze lì rinchiusi. Lei era forse la numero trentuno e le piaceva. Non c’era differenza tra maschi e femmine. Ognuno aveva la sua cella singola ma negli spazi comuni potevano stare tutti insieme. Aveva scambiato qualche occhiata con una ragazza bellissima, la più bella di tutte, che le aveva rovesciato addosso un’infinità di parole senza che lei potesse davvero risponderle. Caterina aveva degli splendidi capelli biondi e un sorriso che faceva girare la testa persino a lei, che fino a quel momento non pensava di poter provare quel certo tipo di attrazione per un’altra ragazza. Avrebbe solo voluto ammirarla a lungo dopotutto, niente di che, solo osservarla nel suo spostarsi i capelli e nel suo sorriso triste. Caterina le aveva detto di stare il più possibile alla larga da Luc, un ragazzo che se ne stava sempre in canottiera anche quando faceva troppo freddo per scoprirsi, e che le stava effettivamente spesso intorno. Si era accorta che Luc non sembrava molto a posto e Caterina non faceva altro che dargliene conferma: «Ti sta sempre intorno perché ha captato la tua ingenuità. Stai attenta perché quello è capace di metterti nei casini. Dopotutto poverino, prova a capirlo, lui è qui dentro da quando aveva dieci anni, è inevitabile che sia un po’ impazzito, prima o poi faremo tutto la sua fine, ma sai… finché possiamo ancora essere in noi, meglio mantenerci sani.» Aveva riso poi, con quella sua bocca magnetica da diciassettenne vissuta, come a dire: “Lo sappiamo benissimo che sani abbiamo già smesso di esserlo nell’esatto momento in cui ci siamo svegliati qui dentro”.

Dopo che per la terza volta le avevano detto che sarebbe uscita, lei aveva smesso durante la pausa di avvicinarsi al muro e si faceva rassegnatamente riversare addosso dal cielo i suoi azzurri, mentre ascoltava Caterina parlare. Tanto lo sapeva che non sarebbe mai uscita, che la stavano imbrogliando.

«Davvero non lo sai perché sei qui?» le aveva chiesto un pomeriggio Caterina mentre lei se ne stava con gli occhi chiusi a farsi amare dal cielo. Spalancandoli poi l’aveva guardata in silenzio per almeno tre minuti. Caterina impassibile aveva retto il suo sguardo, niente le faceva paura, tantomeno le pause di silenzio imbarazzato.

«Tu come fai a sapere che non lo so?».

«Si vede! Cosa credi? Non sai di essere trasparente per noi? Noi semplicemente ti capiamo».

«Non è vero, non capirete mai niente di me. Nessuno capirà mai niente di me. Credevo già una volta di aver trovato degli amici. Ma era tutta un’illusione… Come statue si sono immobilizzati tutti il giorno in cui mi hanno preso e non hanno fatto niente per aiutarmi! Adesso sono rimasti solo ombre, che lottano per non svanire dai miei ricordi, ma io faccio fatica distinguerli. Non sono più capace di riconoscerli».

Si era resa conto pronunciando quelle parole che non era mai stata così arrabbiata in tutta la sua vita. Caterina sorridendo ammirata le aveva detto, con quel suo solito tono da donna d’esperienza: «Ecco perché sei qui dentro».

Il giorno dopo non si era più avvicinata a Caterina e nemmeno al muro, si era solo seduta nel centro del cortile e il cielo la ammirava. Luc come una zanzara le ronzava intorno, proprio come si aspettava. Decise che non avrebbe aperto gli occhi e che gli avrebbe parlato così, come da lontano.

«Luc, mi devi dire perché sono qua dentro».

«Perché fuori non c’è niente».

«Cosa vuol dire?»

«Vuol dire che la piazza rossa, i fiori, l’erba intorno alle statue, non può che essere un ricordo sfalsato».

A quel punto si mise a piangere, non poteva più trattenersi.

«Come fai a conoscere i miei ricordi?»

«Non piangere».

«Dimmelo!»

«Li conosco perché sono anche i miei».

«Perché siamo qui?»

«Fuori non potevamo più starci. C’è qualcosa in noi di sbagliato. È sbagliato per chi sta fuori e ci ha messo qui dentro e noi non possiamo farci niente. Sappiamo pensare in modo diverso, e questo faceva paura».

«Ma come facevano tutti a sapere dei nostri pensieri diversi?»

«Perché noi non siamo statue e l’erba non ci cresce intorno. Lo si capisce dagli occhi».

«Quindi faccio bene a tenerli chiusi».

«Anche io ci ho provato per un po’, all’inizio, credevo che così mi avrebbero fatto uscire. Ma poi ho capito che non potevo. Aprili e continua a pensare in modo diverso».

Quando lei aprì gli occhi il cielo le rovesciò addosso tutte le sue moltitudini di azzurro e una strada di sabbia arancione le rotolò davanti. Si mise allora, senza nemmeno accorgersi, a sussurrare parole d’amore: un po’ a Luc che l’aveva liberata e un po’ a se stessa che, diversa, si era accettata.


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