Un treno che inizia ma non finisce: quello per Darjeeling

Wes Anderson lo abbiamo ritrovato nelle sale cinematografiche di recente, grazie al suo ultimo film: Gran Budapest Hotel. Qualcuno si ricorda la fine? Io no. Non che il film non mi sia piaciuto, sia chiaro. Tuttavia ciò che ricordo meglio è l’immagine del Grand Hotel tutto rosa che sembra un dolce di marzapane. Infatti ciò che rimane a lungo del film nella testa dello spettatore è la sua atmosfera, il suo andamento sinuoso e fiabesco che provoca a chi lo guarda, per tutta la sua durata, un tenue sorriso di compiacimento. Così, anche la visione di Il treno per Darjeeling diverte, ma ciò che fa restare impresso nella mente sono le ambientazioni indiane, i colori vivaci e inconfondibili di Wes, i personaggi caricaturali che rendono la storia un po’ magica e irreale, fuori da ogni contesto, fuori dalla Storia. La trama è la seguente.

Per iniziativa del maggiore di loro, Francis (Owen Wilson), tre fratelli si ritrovano su un treno che attraversa l’India al fine di compiere un viaggio spirituale alla ricerca di sé stessi e della reciproca sintonia, dato che ciascuno di loro si è perso per la propria strada dopo la morte del padre, avvenuta circa un anno prima di quando è ambientata la vicenda. Si scopre più avanti che il vero motivo per cui Francis avesse spinto gli altri due a mettersi in viaggio fosse quello di andare a ritrovare la madre che da un tempo imprecisato li aveva abbandonati: egli aveva scoperto che fosse diventata suora in un convento indiano.

Le tematiche familiari sono ancora al centro dell’attenzione del regista, come nei precedenti de I Tenenbaum o ne Le avventure acquatiche di Steve Zizou. Le premesse sono molto buone. Infatti nelle scene iniziali si iniziano a conoscere i tre protagonisti, ciascuno caricatura di sé stesso e quindi facili da inquadrare: Francis è il tipo autoritario, fin troppo, al punto da condizionare i due fratelli che temono la loro sudditanza psicologica dal maggiore. Jack è il più romantico dei tre: la sua sensibilità gli dà la dote della scrittura. Peter è il tipo solitario e ruvido, ma non per questo ottuso. Il loro problema è l’incomunicabilità e il regista lo insinua allo spettatore in un modo delizioso: nelle scene iniziali ciascuno dei tre fratelli confida a quello a lui più vicino un segreto che l’altro dovrà mantenere col terzo. I protagonisti procedono così nella direzione opposta a quella del miglioramento personale e il regista lo rimarca rendendo grottesca la loro visita ai luoghi più spirituali del percorso: al posto di raccogliersi spiritualmente nei templi che incontrano litigano anche dentro i luoghi sacri non mostrando alcun giovamento dalla visita di questi. E ciò è naturale: la soluzione al problema che affligge i tre fratelli non la si può trovare in assurde fedi orientali perché è custodita dentro ciascuno di loro. Francis arriva infatti ad affermare di «averci provato in ogni modo» a far funzionare il loro rapporto e mentre lo dice lo spettatore sorride ripensando agli assurdi metodi – come quello della piuma del pavone – atti a creare sintonia nel gruppo. Così, dopo essere arrivati sul punto di mollare tutto, cambiano idea appena prima di salire sull’aereo di ritorno e decidono di recarsi dalla madre. Qui arriva il punto più controverso del film: la donna mostra dei tratti caratteriali tipici del figlio maggiore, rendendo a quel punto il giudizio del pubblico meno aspro nel giudicare la sua poca sensibilità. Ora sappiamo da chi ha preso. Poi, eludendo abilmente le domande che i figli le pongono sul perché sia fuggita da tutto e tutti, propone loro di comunicare reciprocamente tenendosi per mano in cerchio, ad occhi chiusi, semplicemente col pensiero. A quel punto su di un lunghissimo treno scorrono sullo schermo una sequenza di immagini, ciascuna che corrisponde ad uno dei vagoni. La trovata è divertente e le immagini sono davvero belle. Come però da questa scena scaturisca la conclusione proposta dal regista, è inspiegabile: la madre infatti il mattino seguente si allontana dal convento non lasciando traccia di sé, i figli mettono in atto il metodo della “piuma del pavone” – questa volta riuscendoci – e decidono finalmente di tornare a casa. Alla stazione del treno, dove un altro di quei convogli Darjeeling Limited è in partenza, arrivano in ritardo: l’unico modo per riuscire a salire sul treno in corsa è quello di sbarazzarsi di tutte le valigie che fin dal primo giorno di viaggio si portano appresso. Liberatisi del fardello del passato il film finisce in modo circolare, con i protagonisti che si ritrovano su di una carrozza col capotreno che, del tutto simile a quello del viaggio di andata, controlla i biglietti dei passeggeri. Le note di Champs Elysees di Dessin fanno partire i titoli di coda. Da una commedia mista (e cioè una fusione tra commedia e tragedia non sempre perfettamente armonica), tipico genere di Wes, il finale è da commedia tradizionale. Ciò che manca però è lo scioglimento dell’inghippo: cosa accade perché i personaggi maturino e tornino a casa uniti? Infatti, quando Francis sta per restituire i passaporti ai fratelli, questi gli rispondono che è meglio li tenga lui: il rischio di separarsi nuovamente è stato scongiurato e la missione sembra essere stata compiuta. Ma nessuno sa il perché. Tuttavia, se la meta ambiziosa del film non viene raggiunta, quella di condurre anche lo spettatore attraverso un viaggio spirituale, il film è divertente e bello a vedersi e a sentirsi: nella colonna sonora spiccano i The Kinks che creano un ottimo contorno alle immagini proposte dal regista. In sintesi? Il piacere derivante dal film è solo temporaneo e si limita al tempo della sua durata. “E sarà mica poco – un intero attimo di beatitudine – nell’intera vita di un uomo?” (F. Dostoevskij, Le notti bianche).


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