Ospitalità

Di Silvia Carbone

In ogni epoca storica gli uomini hanno avuto paura del diverso, dello sconosciuto, dello straniero, in quanto potenziale nemico.

Ma allora, perché si dice che l’ospitalità è sacra?

Nell’antica Grecia il concetto di ospitalità, espresso dal termine xenia, aveva grande rilievo. Si pensava che gli dei potessero assumere sembianze umane e presentarsi sotto forma di ospiti per saggiare l’accoglienza dei padroni di casa.

Se l’ospitante non avesse trattato bene l’ospite, quindi, sarebbe potuto incorrere nella collera divina.

L’ospite, accolto in casa, doveva essere curato, lavato e rifocillato. Solo successivamente potevano essergli rivolte domande sulla sua identità e provenienza.

Le regole base della xenia erano il rispetto reciproco e la consegna di un dono d’addio all’ospite da parte del padrone di casa. Probabilmente oggi ci aspetteremmo, al contrario, un regalo di ringraziamento da parte dell’ospite, ma, come testimoniano i poemi omerici, il padrone di casa guadagnava in prestigio ciò che perdeva dal punto di vista materiale.

Qualora le parti si fossero invertite, inoltre, l’ospite sarebbe stato tenuto a restituire il servizio.

Da un passo dell’Iliade possiamo evincere quanto l’ospitalità fosse considerata importante: il troiano Glauco e il greco Diomede, incontratisi come nemici sul campo di battaglia, rinunciano a battersi tra loro nel momento in cui scoprono che i loro padri sono stati legati da vincoli di ospitalità, e addirittura si scambiano le armi come dono reciproco.

La parola “ospite” deriva dal latino hospes, che condivide la radice con hostisnemico.

Anche presso i barbari l’ospitalità era considerata un dovere cui non era possibile sottrarsi.

La forma più conosciuta dell’ospitalità medievale, invece, è quella istituzionalizzata dalla Chiesa, praticata in monasteri, ospedali e speciali case d’ospiti, gli xenodochia.

Con notevole affinità rispetto alle credenze dei greci antichi, il cap. 53 della Regola di Benedetto recita:

«Tutti gli ospiti che arrivano, siano ricevuti come se fosse Cristo Signore; poiché egli dirà un giorno:

-Fui ospite, e voi mi riceveste.

– Ed a tutti sia reso conveniente onore, ma molto più a quelli della nostra stessa Fede e ai pellegrini».

Cosa rimane oggi di questo forte senso dell’ospitalità?

In alcune culture è certamente ancora molto radicato, possiamo pensare per esempio a quella cinese, indiana o africana, ma anche a molte realtà occidentali nelle quali i ritmi frenetici e la crescente mancanza di socialità non hanno del tutto cancellato la tradizione, che viene portata avanti, pur con delle differenze, da chi l’ha appresa dai suoi avi.

È certamente molto raro, però, trovare chi sia disposto ad accogliere dei completi sconosciuti, peggio se in difficoltà.

Paradossalmente, i nostri nonni praticavano più di noi l’ospitalità, perché conoscevano la povertà, e dove c’è povertà c’è anche un forte senso di solidarietà.

L’alienazione che viviamo va di pari passo con la perdita del valore della condivisione e dell’apertura verso ciò che non conosciamo.

A proposito, risulta però difficile non notare dell’ipocrisia nella linea di solidarismo nei confronti dei migranti recentemente intrapresa dalla Germania della Merkel, e che va raccogliendo consensi in tutta Europa, grazie all’essenziale collaborazione dei Media (pensiamo a tutte le immagini a forte impatto emotivo che richiama in noi l’argomento).

Sarà stata l’improvvisa riscoperta di sentimenti di compassione e amore universale, comodamente accantonati fino ad ora, a determinare questa svolta?

O sarà forse la calorosa accoglienza riservata alla nuova forza lavoro a basso costo, che giungerà, guarda caso, numerosa, fuggendo da conflitti magari propiziati dagli interventi del nostro pacifico Occidente in crisi economica?

 

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