lago d'aral

Lago d’Aral – parte 2 di 2

Di Stefano Schimdt

Da quella che un tempo era una scogliera battuta dalle onde si scende sul “fondo” del mare. Sabbia, qualche conchiglia e sassi tappezzati da tamerici: seminate artificialmente sono un vano tentativo di fermare la desertificazione del lago. Lì sono arenate imponenti sagome scure: sono quel che resta della flotta da pesca di Moynaq. Di 500 barche da pesca, la maggior parte sono state caricate su tir e portate a fondere per un utilizzo migliore; le supersistiti sono state trascinate fino a lì. Cadaveri di barche, arrugginite e vuote, bucherellate dal tempo, piene di sabbia: non esiste monumento migliore alla morte del lago d’Aral. I turisti – abbastanza numerosi, molti italiani – possono arrampicarsi, entrare nelle cabine e farsi fotografare: è l’attrazione di Moynaq, l’unico motivo per cui la cittadina può avere ancora una qualche attrattiva all’esterno.

lago d'aral

Gli abitanti di Moynaq in ogni caso non sembrano troppo interessati ai turisti. Carovane di pullman e jeep giungono ogni giorno da Urgench e Nukus – la capitale del Karakalpakstan, la regione di Moynaq – per vedere il lago e non un ristorante è aperto, non un albergo è operativo. Neanche una sala da the o un chioschetto per l’acqua: gli unici abitanti, nascosti dal sole sotto un ombrello, camminano a spasso strascicato per la strada principale. L’altra attrazione turistica di Moynaq è il museo del lago d’Aral. In realtà non sembra neanche quello troppo pubblicizzato: nascosto da una scuola, non è indicato nemmeno da un cartello. Entrando ci si trova in un atrio e si avrebbe quasi la sensazione di aver sbagliato strada, se non arrivasse un signore anziano ad aprire un porta che dà accesso a una stanza: è un museo. Dentro ci sono conservati vari cimeli del lago d’Aral, da pesci imbalsamati a esempi di vegetazione autoctona, da reti da pesca a immagini delle fabbriche di pesce. Il pezzo forte del museo è un video, sfacciatamente propagandistico, che racconta la storia del lago d’Aral. Mostra immagini del lago in tempesta, mostra barche che lottano contro il mare, mostra le reti piene di pesci e centinaia di lavoratori felici mentre puliscono e confezionano il pesce. Sorvola elegantemente sulle cause del prosciugamento del lago – quasi come fosse una sciagura incontrollata – e poi passa a enumerare i numerosi successi del governo per preservare l’ecosistema del lago e per proteggere la popolazione dalla sventura: mostra medici mentre curano bambini e mostra altri lavoratori (altrettanto felici) mentre costruiscono barriere di paglia contro l’avanzata della sabbia. Ci sono anche vecchietti sorridenti che pescano su una piccola canoa qualche pesciolino, testimonianza vivente che c’è ancora speranza per il lago. Basta uscire dalla stanza buia del museo per capire quanto quelle immagini siano lontane dalla realtà: per strada camminano facce tristi e rassegnate che si muovono nel deserto. Sembra già un miracolo che ancora qualcuno viva ancora lì: Moynaq è completamente morta.

lago d'aral

E qui scatta il moralista che è in me e comincia a condannare ferocemente l’avidità umana che pur di arricchirsi distrugge la natura che ha attorno, devasta ecosistemi e distrugge per sempre la vita di intere comunità. Tutto vero, tutto giusto, un solo dubbio. Il lago d’Aral è secco, al suo posto c’è il deserto ma a monte del fiume l’agricoltura prospera e migliaia di persone lavorano e vivono grazie all’acqua “rubata” al lago. Probabilmente sono più delle centomila persone della Moynaq dei tempi d’oro. E se dunque il prosciugamento del lago fosse un danno collaterale, necessario al sostentamento di migliaia di persone?? Al punto in cui si è giunti, smettere di prelevare acqua dall’Amu Darya significherebbe togliere il lavoro a decine di migliaia di persone e forse mettere in ginocchio l’intero Uzbekistan, che è tra i primi esportatori di cotone al mondo. La sopravvivenza del lago d’Aral e lo sviluppo agricolo della regione sono incompatibili: o uno o l’altro. Qualcuno ha scelto per l’agricoltura e il lago d’Aral è morto. D’altronde ovunque l’uomo sia presente in modo massiccio, la natura deve soccombere: la zona di Londra probabilmente possedeva un ricchissimo ecosistema di zona paludosa che ora ha lasciato il posto al Big Bang e ai tipici autobus a due piani. Nessuno oggi si scandalizza per questo. Un discorso analogo si potrebbe fare per la Brianza, deliziosa regione collinare oggi un unico blocco di cemento; per la Sicilia, ai tempi dei romani coltivata a grano, oggi regione arida. Quindi forse è solo questione di tempo: tra duecento anni il lago d’Aral non esisterà più, nessuno ne avrà più memoria e nessuno si preoccuperà più della sua desertificazione. Saranno importanti solo le coltivazioni di cotone.

Eppure qualcosa in me si ribella di fronte a questo ragionamento: si è perso qualcosa di un valore inestimabile e poco importa se qualche migliaia di persone coltiva un po’ di cotone in più; il danno è enorme. In ogni caso ho troppe poche conoscenze di biologia per capire le reali conseguenze del prosciugamento del lago: rimetto quindi il giudizio agli esperti. Ai miei occhi comunque il prosciugamento del lago d’Aral è un’immensa catastrofe, un cataclisma di dimensioni colossali e ogni volta che penso al lago lo faccio con malinconia e con rimpianto: come doveva essere bello il lago prima di ritirarsi… E monta l’indignazione per gli orridi canali colpevoli della distruzione del (ex) quarto lago al mondo.

In Uzbekistan le persone non amano parlare del lago. Grande catastrofe – dicono tutti. Sembra che fossero in qualche modo affezionati al lago e che le sue dimensioni attuali siano un male collettivo. Ma nessuno sembra curarsi realmente del lago e nessuno sembra minimamente disposto a cambiare il proprio stile di vita per la salvezza del lago. E come biasimarli? Io inquino come una petroliera e non rinuncerei per nulla al mondo al mio stile di vita sontuoso. Perché altri, che consumano meno di me, dovrebbero fare sacrifici che io non faccio?? Il lago sembra condannato.

Tuttavia forse può esistere una via di mezzo, un modo per rimpolpare il lago d’Aral senza distruggere le coltivazioni di cotone. Forse questo si chiama sviluppo sostenibile. Forse bisognerebbe risparmiare acqua, ridurre il prelievo dal fiume e di conseguenza alzare il livello del lago. Forse con un po’ di tecnologia in più e qualche investimento il lago e l’agricoltura non sarebbero più in contrasto e potrebbero se non prosperare, almeno convivere. Forse… Ma sono fantasie. Intanto, nonostante le misure (di cui so poco) prese dai governi dell’Uzbekistan, del Turkmenistan e del Kazakistan – i tre stati che maggiormente beneficiano delle acque del bacino.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.