QUI NON POSSONO ARRIVARE

So che qui non possono farmi niente. Qui, nel mio letto, nascosto sotto le coperte, nessuno può raggiungermi. Sono al sicuro. Devo solo trovare una scusa coi miei per saltare un altro giorno di scuola. Che sospettino qualcosa? No, mamma ha creduto al mio mal di testa. Anche perché effettivamente avevo mal di testa: Claudio l’altro giorno mi ha colpito talmente forte con lo zaino, che per un attimo sono rimasto intontito. Ma qui Claudio non può arrivare.

Vorrei poter dire che non mi ricordo come sia cominciato tutto questo, invece lo ricordo benissimo. Era solo il secondo giorno di scuola e loro avevano già deciso. Non so il perché; cosa c’è che non va in me, per farmi prendere tutte queste botte? Cosa non gli piace di me? Eppure io faccio tutto il possibile per piacergli: gli regalo le mie merendine (altrimenti se le prenderebbero con la forza), gli faccio i compiti o permetto loro di copiare i miei, suggerisco durante le verifiche. L’altro giorno mi sono anche proposto volontario per l’interrogazione di storia, così non sarebbe stato interrogato Marco, che mentre mi avvicinavo alla cattedra mi guardava sorridendo, compiaciuto, sfregandosi le mani tra loro. Eppure mi hanno comunque seguito mentre stavo tornando a casa, per picchiarmi chiamandomi “secchione”. E si sono pure presi i miei soldi. Per fortuna i loro pugni erano tutti diretti al mio stomaco, così mamma non ha visto i segni. Perché quando sono tornato con quel bernoccolo in testa, ci ho messo un po’ a farle credere di aver picchiato la testa contro il muro da solo.

Ma qui non possono arrivare. Qui, nel mio letto, nascosto sotto le coperte, le botte non esistono. E nemmeno gli scherzi. Forse sono io a non capire; anche perché quando mi fanno quegli scherzi, tutta la classe li trova così divertenti, che ridono tutti. Tranne me. Io sorrido imbarazzato, perché non riesco a capire cosa ci sia di divertente nel nascondere la cacca di un cane presa per strada nel mio astuccio. Ho dovuto lavarmi le mani per mezz’ora, eppure la puzza è rimasta per tutta la mattina. Sulla strada del ritorno ho buttato via l’astuccio, poi ho raccontato a mamma e papà che l’avevo perso. “Hai sempre la testa tra le nuvole, non è possibile”. Non mi è pesato molto quel rimprovero, l’importante è che ci abbiano creduto.

Qui non possono arrivare nemmeno i nomignoli, le prese in giro: quattrocchi, pidocchioso, nano, deforme, qui non arrivano. Nemmeno questi soprannomi mi fanno ridere, eppure divertono tutti gli altri. Se poi mentre mi chiamano in questo modo mi stanno lanciando nel cassonetto della carta che c’è in cortile, allora l’ilarità è ai massimi livelli. Sono ragazzate, lo so. Passeranno. Però a me non fanno ridere lo stesso.

Qui, però, non arrivano nemmeno mamma e papà. Vorrei raccontargli tutto, vorrei piangere davanti a loro, invece che sotto queste coperte da solo. Ma non voglio che si preoccupino; sono ragazzate, passeranno. E poi non voglio che papà pensi che sono un debole, che non sa difendersi. Saprei farlo, se solo lo volessi. Ma io non voglio dare pugni a nessuno, so che mamma non lo vorrebbe.

Quindi accetto tutto, incasso ogni colpo come se non lo sentissi, perché lo so che prima o poi si stuferanno. E poi, finché si sfogano su di me, non possono prendere di mira nessun altro; questo mi consola. Io me ne rimango qui, sotto le coperte, nel mio letto, dove loro non possono arrivare.


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