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Lettere peruane #2. Breve storia di un visto.

 

Di Italo Angelo Petrone

Seconda lettera dal Perù, breve storia di un visto.

 

Molti paesi del mondo, specialmente quelli del terzo mondo, hanno, tra le diverse opzioni di visto, anche uno specifico per il volontariato. Non in Perù. Almeno, non per i volontari laici.

Esistono visti per studenti, lavoratori, volontari cattolici, volontari religiosi in genere, per artisti, ma non per volontari laici. Tutti gli altri hanno diritto ad un massimo di 183 giorni, che ti vengono dati appena arrivi nel paese. Ho detto ad un massimo, perché per tanti, come per me, furono solo 90 giorni di permanenza. Che si fa? Ci sono due opzioni principali: la prima è restare in Perù con visto scaduto, e poi, il giorno in cui te ne andrai, pagare una multa pari ad 1 dollaro al giorno per ogni giorno passato nel paese senza visto. Non è penalmente rilevante ma si resterebbe, in ogni caso, senza un visto regolare, in un paese straniero. L’idea lascia una brutta sensazione. L’altra opzione è quella di lasciare il paese quando il visto sta per scadere e rientrare, sperando di ricevere nuovi giorni. Quest’ultima, se anche permette di essere poi regolare, ha dei rischi, tipo quello di trovare un doganiere che sceglie, in quanto può per legge, di non farti più rientrare. Oppure ti potrebbe chiedere denaro per passare. Oppure no, ti da i giorni e basta. Ecco, io ho scelto la seconda, lasciare il paese per rientrare. Sono andato a Santiago del Cile e vi racconto come è andata.

 

– Ci vuoi tornare in Perù?

Mi disse il controllo della dogana all’aeroporto di Lima, grasso, faccia buffa.

Certo, qui il Pisco è più buono che in Cile.

Si mise a ridere di gusto. Me lo aveva confermato anche il tassista che alla dogana tra Cile e Perù bisognava sempre scherzare sulla storica ed antica rivalità tra cileni e peruviani. Pisco, musica, donne e tanto altro erano il soggetto della contesa. Salgo sul volo Lima-Santiago, circa 4 ore, più due di fuso. Il volo è pieno di cileni, si riconoscono facilmente. Sono più moderni dei peruviani. Hanno più tecnologia con se, si vestono all’europea, le donne sembrano francesi od italiane, spagnole, insomma, stavo andando in un paese diverso.

Arrivo a Santiago, fa fresco, non è il sole del Perù. All’aeroporto fanno controlli antidroga. La polizia cilena è famosa in sudamerica per essere incorruttibile, spesso chiamata “fascista”, sono i lasciti di Pinochet. Il mio soggiorno ha come fine di far sì che il mio visto scada così da rientrare senza visto e chiedere dei giorni. Devo restare 3 notti nella capitale, tra le più moderne del Sud America. Vado in un ostello della gioventù che mi è stato consigliato. Un luogo meraviglioso, pieno di viaggiatori di tutto il mondo. Ci metto 3 minuti a trovare un italiano. È subito festa. Passo giorni d’umanità straordinaria, accolto da persone di paesi lontani e vicini, tra passeggiate su colli dai quali si ammira l’intera città fino a notti di danza e perdizione. Visito il centro, il cimitero monumentale, dove saluto Allende, la sua tomba. Mangio Ciorrisco, bevo vino cileno, incontro gente di destino incerto. Ma non ero li per questo. Giunge così il giorno della mia partenza. Saluto Santiago, la sua gente, le sue strade moderne piene di cileni più simili a milanesi o parigini. Il Cile è stato un esperimento neoliberista degli USA, un paese che ha subito la dittatura ma ha anche conosciuto il socialismo democratico, parto. Prendo un bus verso Arica.

La città cilena di frontiera con il Perù, da li si muove verso Tacna, prima città peruviana una volta passato il confine. Il viaggio di 36 ore lo passo grazie alla graziosa compagnia di una antropologa ricercatrice di New York, che guarda caso deve andare ad Arequipa, proprio dove sono diretto dopo aver passato il confine. Sempre se giunge il visto. Sempre se non ci sono complicazioni. Arrivamo ad Arica. Per passare la frontiera si prendono i “taxi compartidos”, macchine da cinque, sei posti che una volta pieni ti portano in entrambe le frontiere, una per fare il timbro di uscita dal Cile e l’altra per sperare di avere altri giorni. Arriviamo alla frontiera cilena, qui tutto va liscio, timbro d’uscita e via. Rientriamo in macchina, siamo in 5: io, l’americana, due donne che sembravano prostitute, non tanto per l’aspetto quanto per le proposte fattemi nel bagno della frontiera cilena. C’è anche un loro “amigo”, azzardo l’ipotesi magnaccia.

Deserto tra Cile e Perù.

Da lontano si vede la frontiera del Perù. Mi sale l’ansia. Se non mi danno giorni? Che faccio? Torno in Cile e aspetto il cambio del turno, sperando di incontrare doganieri meno fiscali? Vado in Bolivia? Sudo. Cerco coraggio, se hai paura, loro, come cani l’avvertono e posso approfitarne. Devi essere tranquillo, mi dico. Frugo nella mia memoria per costruire due o tre battute da usare in caso di complicazioni. Giocare sull’italianità non fa mai male. E se mi chiedono di pagare? Che faccio? Corrompo? Sono un volontario che lavora con minori sfruttati e corrompo? Sarebbe una sconfitta etica. Inizio a tirare fuori i documenti, intanto il tassista cerca parcheggio.

Ho la fedina penale internazionale, la chiesi a Lima e ho carte del mio volontariato. Voglio evitare perlomeno di essere scambiato per narcotrafficante. Non tutti gli europei ed italiani sono qui per volontariato o vacanze. La frontiera è militarizzata. Scendiamo dall’auto e prendiamo le valigie, le controlleranno sicuramente. Entriamo dentro il padiglione di vetro, somigliante ad un grande ufficio postale italiano, ho sudore ghiacciato sulle ciglia. Il sole del deserto entrava secco. Dentro le file di persone sono silenziose, un neonato piangeva di noia, c’è tensione, da queste frontiere passa di tutto, armi, droga, clandestini. Davanti a me c’è la ricercatrice americana, lei ha un visto speciale di studio. Passa tranquilla, tocca a me. Avanzo, porgo il passaporto e con voce sicura faccio “me necesitan 183 dias, por favor”.

Intanto guardo la mia compagna di viaggio già nei controlli dei bagagli. Il doganiere ha una faccia seria e impassibile, sulla quarantina. Mi fa “Italiano. Ya has tenido 90 dias, que tienes da hacer aquì mas?”. Mi dice che ho già avuto 90 giorni, mi chiede che altro ho da fare in Perù. Ecco la domanda che non ci voleva, ora devo mettermi li a piagnucolare e spiegare che sono qui per i bambini lavoratori, che magari non gliene frega nulla a lui. Poi giunge il deus ex-macchina. Il collega, più umano, ha notato che la domanda mi ha spiazzato. Gocce di sudore mi scendevano dagli occhi sul naso. L’altro fa “L’americana è la tua ragazza?”. Vedo la salvezza dinanzi a me, repentino faccio “Ya claro, esta es la cilena pero, tengo una mejor que es peruana”(si, però questa è la cilena, nè ho una più bella peruviana). Pausa di un secondo. Risa virili, forti e dirompenti. “esta bueno amigo de Italia” ridevano con le mani sulla pancia.

Giungemmo a Tacna, io avevo i miei sei mesi e per il bus per Arequipa mancavano 3 ore. Vicino alla stazione c’è una balera, dove puoi mangiare, ballare e bere pisco sour, pisco con uovo. Ballammo, mangiammo, bevemmo, io e l’americana, tra le signore sessantenni peruviane. Il sole martellava la città e la mia camicia era unta di sudore ed adrenalina. Dormì per tutto il viaggio, da Tacna ad Arequipa.

Il Sud America è pieno d’amore, nascosto nelle tasche delle camicie, basta tirarlo fuori, ed è una festa di colori, rumori, mani, bocche e vite che si incrociano per sbaglio. Ad ognuno la sua strada, il suo destino non scritto. Qui ci si saluta con “Que te vada bien”, che ti possa andare bene.

 

Italo Angelo Petrone

Credits: copertina, im1, im2, im3, im4

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