Boiardo e Ungaretti: è possibile cantare la guerra?

Alor con rime elette e miglior versi

farò battaglie e amor tutto di foco;

non seran sempre e tempi sì diversi

che mi tragan la mente di suo loco;

ma nel presente e canti miei son persi,

e porvi ogni pensier mi giova poco:

sentendo Italia de lamenti piena,

non che or canti, ma sospiro apena.

A voi, legiadri amanti e damigelle,

che dentro ai cor gentili aveti amore,

son scritte queste istorie tanto belle

di cortesia fiorite e di valore;

ciò non ascoltan queste anime felle,

che fan guerra per sdegno e per furore.

Adio, amanti e dame pellegrine:

a vostro onor di questo libro è il fine.

Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, II, XXXI, 49-50.

Con queste ottave si conclude il secondo libro di uno dei più celebri poemi cavallereschi del Quattrocento. La storia non è ancora conclusa ed infatti l’autore sente il bisogno di giustificare l’improvvisa interruzione. La ragione di questa è la violenta irruzione della realtà storica sulla vita del Boiardo. Dal 1482 al 1484 Ferrara, casa dell’autore, e Venezia si sono date guerra, sconvolgendo le vite degli abitanti delle due città ma soprattutto l’immaginario comune e quello del nostro, impegnato nel suo tentativo di rifondare un genere che si basa sulla guerra, ma una sua versione idealizzata e trascendente, che nulla ha a che vedere con la guerra reale, fatta di vittime innocenti, barbarie e disperazione. Proprio la presa di coscienza di questo fatto spezzerà l’illusione del poema non permettendone la continuazione. Nei dieci anni successivi infatti Boiardo comporrà solo 9 canti del terzo libro. È proprio quella Italia de lamenti piena a rompere l’idillio cavalleresco e forse la stessa fiducia dell’autore nei confronti della poesia che non è più un canto, ma sospiro apena.

Sono questi due versi a gettare luce su quello che è il rapporto tra realtà e poesia per un uomo del Quattrocento: fra le due si erge un muro, la prima non sa rendersi degna della seconda e quando rompe la serenità del poeta l’unica soluzione possibile è l’interruzione del canto ed il cessare della composizione. La poesia è quindi costruzione, ad artificio del suo creatore, di un altro mondo, alternativo al nostro, dove far vivere valori ed ideali lontani e dimenticati, che dimostra però la sua fragilità e forse inconsistenza proprio di fronte agli inevitabili accidenti della realtà fattuale. Una simile poesia è quindi consolazione, un alleviare le sofferenze di uomini per lo più nostalgici, che però sembra rivelarsi incapace di influenzare il mondo come questo fa con di lei.

Ci lasciamo alle spalle più di quattro secoli per andare a trovare un altro grande poeta che canta la guerra: Ungaretti. Tramite questo confronto speriamo di poter mettere in luce alcuni particolari del percorso che la poesia e i poeti hanno fatto riguardo un tema così alienante e carico di spinte da sublimare come la guerra. Se per Boiardo queste spinte erano tali da obbligare il canto al silenzio per Ungaretti la poesia è forse l’unico modo per liberare l’uomo dalla loro carica distruttiva ed annichilente. Non esistono più temi indegni di essere resi in verso ed i dettagli della guerra, nella sua realtà terribile e disumana, vengono raccontati con precisione, anche lessicale (lontano dalle ferree canne di Leopardi), come per esempio in In dormiveglia, dove “l’aria è crivellata / come una trina / dalle schioppettate / degli uomini / ritratti / nelle trincee”. Siamo lontani anni luce dall’etica carolingia o dalla sublimazione che ha paura di termini tecnici o popolari come schioppettate e trincee.

Il muro fra poesia e realtà si è quindi abbattuto, l’una influenza l’altra permettendone l’esistenza come per le celebri “lettere piene d’amore” scritte durante la veglia accanto al compagno morto o Moammed Sceab che non sapeva “sciogliere / il canto / del suo abbandono”. La poesia è quindi strumento di vita, la cui espressione salva da un mondo rimasto folle da Boiardo a Ungaretti, ma la realtà, quella delle trincee, è anche motivo di poesia, è stimolo al canto e non al silenzio. Una poesia che salva l’uomo e lo rende, o ri-rende, integro, evitandone la frammentazione che però subisce il verso, questo non immune, frammentazione sulla quale si sono già spesi fiumi di inchiostro di penne ben più insigni della mia.

Una poesia che salva l’uomo, anche di fronte alla più grande delle tragedie, è una poesia che ha un senso e che merita d’essere coltivata, anche oggi.

credits

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