“Apri gli occhi”, perché la realtà non è ciò che sembra

Negli ultimi vent’anni più che mai il cinema sembra essersi dedicato alla dicotomia sogno-realtà, mostrandoci quanto il confine tra i due possa essere labile. Da Matrix a Inception, passando per Memento, abbiamo cercato di capire con i protagonisti dove risiedesse la realtà, e dove invece l’illusione dei nostri desideri. Al di là delle produzioni anglofone però, vi è un film che in un certo senso ha preceduto tutti gli altri, ovvero Apri gli occhi (Abre los ojos, 1997) dello spagnolo Alejandro Amenábar.

Per chi non lo sapesse, Abre los ojos è il film di produzione spagnola che ha ispirato l’americano Vanilla Sky di Cameron Crowe. Leggenda narra infatti che Tom Cruise – che interpreta il protagonista nella versione americana – non appena finito di vedere il film al cinema, si fosse mosso immediatamente per ottenerne i diritti d’autore, e rovinare così l’opera di Amenàbar con una remake che semplicemente cambia la location da Madrid a New York. Ma torniamo dunque a parlare del più meritevole originale.

Alejandro Amenàbar (immagine inserita alla revisione)

César (Eduardo Noriega) ha una vita perfetta: a soli venticinque anni è già ricchissimo grazie all’azienda di famiglia, è amato dalle donne, che cambia ogni giorno, e invidiato per la sua bellezza. Un giorno incontra Sofia (Penelope Cruz), di cui si innamora, e che però perderà insieme a tutto ciò a cui tiene di più – la bellezza – quando rimarrà sfregiato in un incidente d’auto. Un salto temporale ci riporta però al presente: César è richiuso in una cella di un ospedale psichiatrico con l’accusa di omicidio, ed è costretto a coprire il suo volto sfregiato con una maschera. Ma come è arrivato ad essere accusato di omicidio? César non si ricorda di nulla e, completamente spaesato, non crede in nulla se non nel pavimento su cui è sdraiato, unico elemento che sembra veramente reale. Solo con l’aiuto dello psicanalista riuscirà a far riaffiorare i ricordi.

Da questo punto di vista, il titolo è già di per se abbastanza eloquente. Esso è un vero e proprio richiamo alla realtà che riecheggia fin dalle primissime battute del film: César, in preda ad un incubo ambientato in una Madrid post-apocalittica, si sveglia grazie ad una voce femminile registrata sulla sua sveglia che ripete le tre parole del titolo. L’invito verrà poi tematizzato durante il film, diventando l’appello dello psicanalista – e del regista stesso per lo spettatore – a guardare al di là di quella che crediamo essere la realtà per cogliere i segnali, spesso evidenti, della finzione onirica.

Infatti, la realtà di riferimento di César è messa continuamente in dubbio, e la sua versione dei fatti diventa sempre meno plausibile, rivelandosi una costruzione della sua mente e proiezione dei suoi desideri che nascondono una realtà forse troppo difficile da accettare. È più facile nascondersi dietro ad una maschera, che César rifiuterà di togliersi ogni qualvolta lo psicanalista glielo chiederà, continuando ad affermare la follia delle sue insinuazioni.

Amenábar ci trascina così in un mondo ossessionato, pieno di paure ed illusioni che celano la verità. Ci porta all’interno della mente allucinata di César giocando con la nostra stessa percezione della realtà, grazie ad una tecnica di montaggio non lineare, e ad una sceneggiatura nella quale i livelli narrativi si intrecciano e i salti temporali creano la necessità di una vera e propria ricostruzione dei fatti. Ad accentuare poi la sensazione ci confusione vi sono gli effetti di déjàvu. Battute e scene infatti si ripetono prima in maniera apparentemente casuale, poi in maniera sempre più scandita e veloce, costringendoci a cambiare l’universo di riferimento.


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