Senza un Dio, chi perdona la mia poesia?

Il perdono in poesia è uno dei temi più inflazionati, soprattutto nella poesia medievale. Dante, con la Commedia, ha intessuto un’intera triade di cantiche sul perdono; lo stesso Petrarca ne ha scritto spesso.

La donna-angelo di Dante e Petrarca

Il perdono in questi poeti era connesso a Dio e ad una raffigurazione poetica precisa, quella della donna-angelo. Solo essa poteva concedere il perdono a loro, attraverso la trasfigurazione delle loro imagines, Beatrice come guida nel paradiso, Laura come incarnazione della Madonna. Così la poesia d’amore era fortemente legata all’idea di perdono e di redenzione dai propri peccati. Dante, non a caso, ne La Vita Nova scrisse, a proposito dell’ispirazione poetica, “amor mi detta“, ossia “è grazie all’amore per Beatrice se scrivo”: un amore che si fa sempre più trascendente e lo affranca dalla vita terrena, in favore di una spiritualizzazione.

Il decadimento della donna-angelo in Giovan Battista Marino

Se facciamo un salto di alcuni secoli, con Giovan Battista Marino avviene invece un decadimento della donna-angelo, in favore di una molteplicità di donne. Si sottolineano immagini derivanti dal riflesso, dallo specchio, e quindi la moltiplicazione di soggetti attivi nella poesia. Ormai la donna diventa elemento terreno, oggetto di amore, sì, ma per fini chiaramente sessuali. Niente di più, niente di meno. Tant’è che ne La Lira (opera amplissima di liriche del Marino, divise per temi) non si trova la Donna, ma le donne.

La genialità nel Marino sta proprio nell’essere capace di riproporre temi già visti, legati all’amor cortese, spezzandone però la continuità e dandogli un accento libertino e ironico. Già qui si intravede un netto superamento del tema del perdono. Questo abbandono fu dovuto a molti fattori, perché ormai la poesia nel Barocco aveva smesso di essere politicizzata: era un divertissement, per intenderci, un vezzo di corte.

Dalla poesia come divertissement alla poesia come impegno

Lo era anche nella prima poesia d’amor cortese (del resto, cortese sta per corte). Più la poesia si sposta verso ambienti temporali, seppur strettamente legati al discorso religioso – per evidenti questioni politiche – più rimane nell’ambito del gioco.

La poesia comincia a farsi impegnata quando esce dall’ambito cortigiano e si fa elucubrazione di grandi menti, quali Dante e Petrarca. Per questo nella poesia contemporanea, dove si è persa ogni rimanenza di “cortigianeria”, non facendo più parte di un gruppo che giustificasse l’operato e desse nutrimento allo spirito del fare poesia (più per gioco che per impegno), abbiamo una forte presenza del disagio sociale, dell’assenza di un luogo emotivo importante: il poeta assorbe su di sé il dolore dell’ecumene e cerca di metabolizzarlo.

Le tendenze interiorizzanti della poesia contemporanea

Questa è una tendenza che prende piede nell’800 e continua fino alle soglie del 2000. Per questo, il perdono, in poesia, non è più un perdono divino, ma terreno: i poeti cercano di trovare il perdono dal senso di inadeguatezza di un mondo che, attraverso la rivoluzione tecnologica, sta mutando la prospettiva profonda dell’essere umani. Questa considerazione non deve apparire semplice constatazione: è molto di più. Se la poesia ha sempre trovato un punto di riferimento forte, quale la religione o la corte, oggi la poesia non ne ha più nessuno: è essa stessa che deve costruire un punto di riferimento.

Questo processo, iniziato con la poesia dell’800, almeno nell’esperienza della poesia occidentale, ha avuto forti riscontri, perché davvero ha saputo dare un’identità forte alla Società del tempo, ha saputo interpretarne i mutamenti, dando voce alla forza intellettuale di una letteratura che cerca di dare una risposta all’origine del desiderio di essere umani.

Oggi il perdono, appunto, non dev’essere più un perdono volto verso l’altro: come la maggior parte degli archetipi, si è fatto interiore. Ormai l’essere perdonati è una questione di riflessi. E la poesia ha raccolto la sfida, cercando di trovare un senso di fondo, un locus, dove non sembrano esserci luoghi di riferimento. Il perdono, di conseguenza, lo vediamo in Montale quando parla di Drusilla ne Satura I e II: un perdono per la propria tristezza, concesso dalla poesia, una poesia che redime dall’essere fragili e rende giustizia al proprio dolore, terribilmente umano, per cui non è Dio a dover concedere la grazia, ma è l’uomo che deve concedere una redenzione a se stesso.

FONTI

Dante Alighieri, Divina Commedia

Dante Alighieri, La Vita Nova

Francesco Petrarca, Canzoniere

G.B. Marino, La Lira 

CREDITS

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