“Quando è una questione di soldi, siamo tutti della stessa religione”. O no?

Copricapi dorati e manti di porpora indossati da alcuni membri del clero cattolico sembrano apparire in contrasto con le semplici tonache marroni utilizzate da altri uomini seppure abbiano consacrato la loro vita alla stessa religione.

Delle contraddizioni all’interno della Chiesa cattolica si parla molto spesso e le polemiche non sono mai mancate: da una ricchezza in numero di fedeli è derivata anche una ricchezza materiale, utilizzata in parte per finanziare attività di beneficenza, in parte per contribuire all’immagine della Chiesa stessa.

Il Nuovo Testamento condanna esplicitamente l’uso del denaro come mezzo di arricchimento: per questo nell’Europa a maggioranza cristiana per secoli i più devoti sono stati riluttanti a intraprendere mestieri in ambito prettamente economico, in particolare attività di prestito di denaro, neppure a tassi di intetesse bassi (“Se avete denaro non datelo ad usura, ma a colui dal quale non lo riavrete più”, dal Vangelo secondo Tommaso).

Chi sembrava, almeno in apparenza, non avere questo tipo di esplicito impedimento, erano gli ebrei. Nei Salmi dell’Antico Testamento non si proibisce il prestito di denaro, pur condannando comunque l’usura: colui che “presta denaro senza fare usura” si dice possa essere fra quelli che restano “saldi per sempre”. Perciò in passato furono loro spesso a dover svolgere quel tipo di mestiere e molti di loro si trovarono arricchiti, non avendo alcun impedimento religioso neanche all’idea di tenere da parte i beni guadagnati, con la prospettiva che il futuro potesse essere incerto. Ciò contribuì purtroppo ad alimentare pregiudizi.

Anche la religione islamica prende una posizione piuttosto netta riguardo alle ricchezze materiali, condannando severamente l’accumulo con un doloroso castigo: le ricchezze tenute da parte saranno rese incandescenti dal fuoco dell’Inferno e ne saranno marchiate le fronti, i fianchi e le spalle dei proprietari.

Dio ha reso lecito il commercio, illecito l’interesse“, si legge nel versetto 275, seconda sura del Corano.

Esiste tuttavia un sistema bancario islamico, basato su regole rigide. Il “prestito giusto” (qard-el-hassan) richiede una condivisione del rischio fra chi presta, il mezzo attraverso cui presta (la banca) e chi prende in prestito, poiché non è previsto alcun tipo di interesse né di vantaggio per il creditore, se non il fatto di utilizzare i suoi averi anziché tenerli da parte. Si incoraggiano così gli investimenti su ricchezze che non siano denaro. I soldi infatti hanno valore solo se rapportati a beni concreti, come oro, argento o anche grano.

In questo modo si cercano di limitare situazioni che vadano unicamente a svantaggio della parte più debole, il debitore, il quale dovrà chiaramente comunque impegnarsi a restituire la somma richiesta, ma senza l’incertezza basata sui cambiamenti di valore della valuta, sulla quale è proibito speculare.

Occorre specificare, però, che esistono consensi e divieti circa l’attività imprenditoriale e negoziale. Tali investimenti devono infatti essere socialmente responabili, cioè fatti su attività che non vadano contro le leggi islamiche: non si può, ad esempio, finanziare una fabbrica di alcolici o un casinò, poichè il Corano condanna l’uso di alcolici e il gioco d’azzardo.


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