La selezione parentale come scusa (impropria) per il nepotismo

La spinta ad aiutare in ogni modo sia possibile i propri figli ha una base biologica di autoconservazione, per la progressione dei propri geni nelle generazioni future. L’osservazione di questo tipo di comportamento ha portato diversi studiosi (a partire dallo stesso Charles Darwin, sino al biologo evoluzionista W. D. Hemilton), a pensare ad una teoria della selezione parentale, applicabile sia ad alcuni animali sia a situazioni umane: un individuo può essere spinto anche a correre dei rischi per favorire i propri parenti, per il bene di qualche “gene egoista”, così battezzato dal biologo R. Dawkins.

Questo comportamento dovrebbe essere, su base numerica, proporzionato al grado di parentela. “Darei la mia vita per due fratelli o otto cugini”, scrisse provocatoriamente il biologo J.B.S. Haldane nel 1935, per dare una formulazione matematica di questo genere di selezione. Un’estensione di questa teoria si applica in ambito sociologico, a dare origine al nepotismo etnico, teorizzato dal professore di psicologia J.P. Rushton, che cerca una spiegazione all’altruismo nei confronti dei propri simili, più o meno imparentati, anche a scapito di altri oltre che di se stessi.

Spesso però, nella società occidentale, favorire i propri parenti non comporta un rischio mortale, come per gli esempi matematici o del mondo animale, quanto soprattutto problemi di tipo legale, se il favoritismo avviene in situazioni come concorsi pubblici nei quali la meritocrazia (fattore ambientale e personale) dovrebbe prevalere sulla genetica. Certo, l’interesse di un figlio per l’ambito di occupazione del padre o della madre potrebbe giustificare parte dei casi di omonimia in ambiti non privati come quelli della ricerca universitaria, ma non è detto che la bravura sia ereditata con tanta facilità quanto cognome e colore degli occhi.

Alcuni college americani richiedono facoltativamente, in allegato alla richiesta di iscrizione, una “Family Recommendation”, ovvero qualche riga scritta da un familiare riguardo alle qualità dello studente: il raccomandante è tenuto a firmarsi, può magari anche questa firma influenzare il giudizio della commissione? In Italia questo tipo di raccomandazione non è contemplato, eppure l’abitudine di mettere una buona parola per chi ha legami di sangue non è caduta in disuso, nonostante diversi provvedimenti. Il primo di questi avvenne in ambito ecclesiastico, nel 1692, quando al di fuori del contesto religioso non c’erano ancora grosse obiezioni nel preferire, per l’acquisizione di privilegi economici e sociali, il prestigio familiare al merito personale. La bolla, emessa da papa Innocenzo XII, proibiva ai papi di concedere proprietà, incarichi o entrate a qualsiasi parente, con l’eccezione che non più di un parente, purché qualificato, poteva essere nominato cardinale.

La grossa discriminante resta il fatto che il parente che riceve il beneficio in quanto “figlio di…” possegga o meno le qualifiche necessarie per svolgere il suo nuovo lavoro: se si tratta di un’azienda privata, i danni da incompetenza possono essere a solo a carico della famiglia, e si possono perciò tollerare come rischi calcolati; ma in ambito pubblico, quando viene usato denaro statale o, peggio, si agisce sulla salute di persone, la teoria della selezione parentale non è più utilizzabile come giustificazione (non è chi raccomanda a perderci).

Credits immagine: pixabay [ CC0 Public Domain]

 

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