Il cappello è la tua mente: la tecnica del cut-up

La scrittura, o almeno il concepimento di ciò che viene scritto avviene in maniera tutt’altro che lineare. Le parole si articolano nella mente creando sequenze sceniche, che soltanto a seguito del ragionamento vengono composte in frasi compiute: è una continua cucitura e assemblaggio di frammenti e idee che navigano, che giocano nella nostra testa, parafrasando dalle teorie di Wittgenstein.

Può avvenire che queste parole si scelga deliberatamente, anziché di porle in un ordine logico o convenzionale, di “tagliarle”, insomma di scomporle, compiendo il processo opposto e scegliere la via dell’irrazionale. Il gioco sintattico, dapprima relegato alla mente, viene così trasposto sul materiale, diventa una realtà insensata, che rifugge dalle immediate comprensioni semantiche del testo.

Il primo, si dice, che sperimentò questo genere di tecnica scrittoria fu il poeta dadaista Tristan Tzara. La sua intuizione era quella di far vivere le parole in maniera autonoma dalle scelte dell’autore, sino a farle intrecciare in nuove linee semantiche che, una volta sul foglio, avrebbero acquisito il sapore primordiale dell’entropia. Gli esperimenti ebbero inizio da un fatto a dire il vero banale: ad un raduno di artisti dadaisti, Tzara si presentò con un cappello ricolmo di parole, scritte su foglietti rimestati a caso, e chiese di estrarne alcune per comporre, lì sul momento, un poema.

Questi furono gli esordi della tecnica poi divenuta nota come “cut-up”.

Altri poeti del tempo utilizzarono metodi compositivi che si ispiravano – chi più, chi meno – alle innovazioni stilistiche e concettuali di Tzara e del dadaismo. Guillaume Apollinaire ne è un esempio. Ma fu nella seconda metà del secolo scorso che si avvertirono maggiormente gli effetti della scrittura “entropica”, con risultati eccezionali in America, dove negli anni ’50 i beatnik andavano formandosi come movimento artistico d’avanguardia.

Allen Ginsberg, poeta di punta del gruppo, fu tra quelli che accreditarono Tzara tra le proprie influenze: i concetti dirompenti delle avanguardie europee avevano raggiunto le sponde occidentali dell’Atlantico. E fu nel cuore della beat generation che si affermò l’autore che più di tutti prese a piene mani dalla tradizione avviata dai dadaisti.

William S. Burroughs. Lo psicotico e il geniale, l’esuberante e l’allucinato. Quest’ultimo lo è stato più che altro grazie alle innumerevoli droghe psicogene con cui era uso sperimentare, tratto distintivo, in realtà, di una cospicua parte del movimento artistico. Era considerato, da Ginsberg e Kerouac stessi, come il principale ispiratore del loro gruppo, nonostante alla fine sia il romanzo On The Road di Kerouac ad essere più spesso ricordato come massimo esempio della loro corrente.

Vale però la pena ricordare il valore di un gigante letterario della statura di Burroughs. Nei suoi romanzi, a partire da quel Naked Lunch (1959) che fu la sua fortuna, sono convogliate, disciolte , tutte le intuizioni che stanno alla base di un pensiero vulcanico, a tratti paranoico, ed inimitabile, che ha sviluppato buona parte della sua produzione letteraria su una applicazione critica della tecnica cut-up.

Lo fece ispirato dal concetto di “lingua come virus”, meglio formulato successivamente nel breve saggio The Electronic Revolution (1970). In breve, Burroughs intendeva la lingua umana come fosse un virus, che infetti e abiti il proprio ospite, corrompendolo; oppure, riflettendone le già presenti corruzioni, dunque evolvendo assieme a lui.

“Ogni specie dominante ha un Virus Dominante: l’Immagine Deteriorata di quella specie.” – estratto da Pasto Nudo

La lingua diviene, in questo senso, “tossica”, malata, allo stesso modo degli uomini, donne ed entità che abitano l’immaginario romanzesco di Burroughs. Il loro linguaggio è distorto e riassemblato di continuo, a seguire il pattern erratico delle loro azioni, all’apparenza insensate o stralunate, fuori da qualsiasi possibilità immaginabile. Così da questa lingua assurda fuoriesce il grottesco viso dell’umanità, tracciato dalla penna del suo brutale narratore. Semi-autobiografiche negli spunti, le storie ideate da Burroughs si cibano della confusione che la sua scrittura instilla nei lettori, del sensuale ribrezzo che provocano le parole, specchio di una società malata di sé stessa, delle sue creazioni.

Il cut-up servì a Burroughs, insomma, per mimare l’orrendo mondo che, ai suoi occhi, stava divenendo l’America del suo tempo, della guerra fredda e delle ossessioni: il razzismo, l’omofobia, il consumismo dilagante, il maccartismo. Forme velate o manifeste di repressione potevano essere combattute, secondo l’autore, anche sul piano del linguaggio, sperimentando con le forme sino a rendere irriconoscibile il significato che voleva fosse veicolato. In questo senso i suoi “tagli” potrebbero essere avvicinati – lo possono di certo, dato che la matrice artistica è la medesima – agli esperimenti dei letteristi e, poi, dei situazionisti in Francia.

Grazie anche all’aiuto artistico del suo amico Brion Gysin, originario suggeritore dell’idea di utilizzare una nuova tecnica per comporre testi (Gysin era stato ispirato da una conversazione con Tzara in persona), Burroughs riuscì a creare uno stile letterario che potesse sfidare i canoni dell’epoca, nonché – e soprattutto – la mentalità “passivizzata” dei lettori statunitensi.


Fonti consultate: The Electronic Revolution, Naked Lunch, “The Nova Trilogy“, Port of Saints 

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