Le Città Invisibili: dalla fantasia alla pagina

“Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.” Ne Le città invisibili Calvino, dopo aver indossato le vesti di Marco Polo, guida il lettore in un viaggio immaginario tra le terre possedute da Kublai Khan, imperatore della Cina. Descrive una dopo l’altra città che hanno affascinanti nomi di donna, caratteristiche ambigue che rimandano a vizi e a virtù. Il tema del doppio, delle apparenze, della falsità sembra accomunarle. C’è Cloe nella quale si consumano sguardi, istanti, avvenimenti senza che nulla accada davvero. C’è Leonia che ogni mattina si veste a nuovo e accumula il vecchio, l’usato, il passato ai suoi confini. C’è Eusapia che si divide tra l’Eusapia di sopra che è dei vivi e l’Eusapia di sotto che è dei morti, anche se, forse, questa differenza non è poi tanto sicura. Italo Calvino lascia parlare luoghi inventati, trasforma ogni capitolo in un quadro.

L’opera si configura come fortemente simbolica, come estrema personificazione del concreto. Ogni città assume caratteristiche, valenze collocabili all’interno di un viaggio interiore più che esteriore, un percorso di coscienza e non di chilometri. L’indagine di Marco Polo non risulta necessariamente credibile, lo stesso Kublai Khan mette in dubbio la veridicità della sua prosa e i ruoli si rovesciano. Il sovrano immagina e chiede all’esploratore di descrivere non quello che ha visto, ma ciò che pensa il Gran Khan vorrebbe vedere. Forse, però, non è altro che lo stesso procedimento, una creazione dove le parole diventano mattoni, le frasi vie da percorrere. Un mondo dove si può viaggiare senza il bisogno di spostarsi fisicamente, ma solo mentalmente.

Italo Calvino non si abbandona alla letteratura considerandola come arte sciolta dal resto. Se ne Le Cosmiche e Ti con Zero gioca con la scienza, se ne Il sentiero dei nidi di ragno fa i conti con la storia, se in Se una notte d’inverno un viaggiatore parafrasa la linguistica e la critica letteraria, ora tira in ballo anche la geografia, l’urbanistica. Rende poetico qualcosa che non esiste, che inventa, dona importanza alle costruzioni, ma solo perché colonne portanti delle metafore a cui vuole giungere.
Egli stesso ci dice: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

 

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