Simulare la morte per apprezzare la vita: la Corea del Sud scende in campo contro i suicidi

La morte è un tema inesorabilmente scomodo e la Corea del Sud lo sa bene. Forse il Paese è troppo lontano sia culturalmente che geograficamente dal nostro per poter immaginare le difficoltà che lo attanagliano, mettendo da parte il fascino esotico da cui veniamo sedotti. Basta però consultare una qualunque statistica riguardante i suicidi per rendersi conto del triste record sudcoreano. Stiamo parlando del Paese industrializzato con il più alto tasso di suicidi al mondo, anticipato solo da Lituania e Groenlandia se considerassimo l’intero pianeta. Stiamo parlando di vite umane, 39 vite umane che si spengono ogni giorno.

Fronteggiare un’ondata di suicidi come quella che sta investendo la Corea del Sud non è affatto un gioco da ragazzi, soprattutto se le cause sono da ricercare nell’essenza stessa della società. L’iper-competitività regna sovrana, l’efficienza è un must, gli affetti sono secondari al successo, ai fallimenti non è lasciato spazio, le debolezze non sono ammesse: tutto ciò che un tempo caratterizzava il successo sudcoreano si sta ritorcendo contro a chi si trova ad essere una pedina di un modello di perfezione andato fuori controllo.

Se le cause sono così chiare, a non esserlo per niente sono le soluzioni. A poco e niente è valsa, ad esempio, l’installazione dei sistemi d’allarme di cui sono stati dotati i ponti di Seul, scenario dell’estremo gesto di molti abitanti della capitale, come suggeriscono i cartelli inneggianti alla vita qui posizionati (uno recita «La parte migliore della tua vita deve ancora arrivare»). Il dilagare dei casi di suicidio, che non risparmiano neanche i più giovani, i più abbienti, i politici e le star, ha reso necessaria una campagna d’urto.

Cosa significa morire? Non esiste forse domanda più filosofica. È proprio con questo pensiero che i partecipanti dell’iniziativa atta a ostacolare le morti suicide nel Paese si sono trovati a tu per tu. Sì, perché in Corea del Sud è ora possibile simulare il proprio decesso. Dopo aver scritto una lettera di addio ai propri familiari, si viene rinchiusi in una vera e propria bara. Quello che accade al suo interno, ma soprattutto nella mente di chi si trova avvolto dalle tenebre della morte, è stupefacente. Le riflessioni sono paradossalmente intrise di voglia di vivere e portano ad apprezzare la vita anche nelle sue difficoltà, piuttosto che far confluire gioie e dolori in quel buio scheletro di legno. Una volta aperta la bara, la speranza è quella di un ritrovato senso della propria esistenza. L’iniziativa sta avendo diffusione capillare anche nelle scuole e negli uffici.

Tirando le somme, la Corea del Sud sta facendo notevoli passi avanti: dall’iniziale rassegnazione dell’allarmante spegnersi della sua popolazione si è mossa verso la lotta del pensiero del suicidio. Sembra però che il Paese non sia minimamente disposto a rinunciare alla propria reputazione di perfezione ed efficienza, portando le persone ad apprezzare la vita così com’è, per quanto dura. Non si sta cioè lavorando sulle cause dell’epidemia, facendo mandare giù ai sudcoreani il boccone amaro dei suoi sintomi.

Fonti:

https://data.oecd.org/healthstat/suicide-rates.htm

www.internazionale.it

www.ilpost.it

www.lastampa.it

www.dagospia.com

www.bergamopost.it

Crediti immagini:

Immagine 1, Immagine 2

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