Ana Teresa Fernandez

Ana Teresa Fernandez: over the borders

Ana Teresa Fernandez, nata a Tampico in Messico nel 1980, varcò per la prima volta il confine in età liceale, quando si trasferì con la propria famiglia a San Diego. Da quel momento Ana Teresa Fernandez non ha più smesso, tramite le proprie opere, di varcare il confine.

L’artista varcò indubbiamente il confine quando nel 2011 si presentò armata di scala, vernice azzurra e pennello alla frontiera che separa Tijuana, in Messico, da San Diego, negli Stati Uniti. Con le gambe tremanti sui tacchi sottili, dipingendo a quattro metri da terra, Ana Teresa, dopo essersi destreggiata fra minacce di arresto ed elicotteri della polizia, cercò di far scomparire i contorni di quella barriera metallica dandole il medesimo colore del cielo.

“Erasing the border” (2013) è infatti il titolo dell’opera in cui Ana Teresa documenta due anni dopo olio su tela il proprio tentativo di occultare la recinzione metallica che, impedendo l’accesso al territorio statunitense, provoca ogni anno centinaia di morti. Proprio lutto e cordoglio motivano pertanto la scelta del colore dell’abito, nero come le vesti che le donne messicane portano fino ad un anno dopo la morte di un caro.

“Erasing the border” tuttavia è anche il più lucido manifesto e akmè della ricerca artistica di questa giovane donna, la quale ha fatto dello stesso concetto di confine il fil rouge delle proprie riflessioni. Inoltre, cresciuta nell’unione della propria cultura madre con quella statunitense, Ana Teresa cominciò presto ad interrogarsi sulla definizione di identità, quale nozione etnica, sociale, politica e soprattutto di genere.

“Quando ero ragazza in Messico, sono presto venuta a conoscenza del doppio standard imposto alle donne e alla loro sessualità. Gli uomini vogliono una signora a tavola e una puttana in camera da letto.”

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L’artista intraprese dunque i propri studi sull’identità femminile facendo collidere nella propria opera “signora” e “puttana”. Chiese infatti alla coinquilina di riprenderla e fotografarla alle prese con le faccende domestiche quotidiane, vestita però in una provocante mise che poi caratterizzerà la quasi totalità delle comparse di Ana Teresa. Prendendo le mosse dalle immagini scattate, ritrasse poi se stessa olio su tela o a carboncino in atti come quello di stirare o di stendere i panni in pose seducenti che apparentemente si conciliavano con il contesto in forme del tutto improbabili. Il confine viene dunque qui presentato come un’entità fragile attorno alla quale la donna può danzare creando impreviste combinazioni, ridefinendo il rigido dualismo di eros e castità che le era imposto dall’ottica maschilistica e conservatrice. E’ inoltre interessante notare che le donne ritratte in questa serie di opere non mostrano mai il volto allo spettatore, costretto per tale ragione a riporre esclusivamente la propria attenzione sull’azione e sulla fisicità del soggetto. Con questo espediente Ana Teresa tende a discostare l’immaginario del fruitore dall’ammirazione del viso femminile quale raffigurazione emblematica e necessaria della bellezza, stereotipo reiterato dalle immagini pubblicitarie. La stessa artista afferma infatti di voler “documentare” la vita della donna, sottraendola all’universo fittizio dell’estetica ideale e paradigmatica, spesso frutto acerbo di una proiezione mentale prettamente maschile.

L’artista sostiene di poter collocare con certezza le radici del proprio pensiero femminista nell’appassionata lettura di autrici quali Virginia Woolf e Isabel Allende; mentre in ambito artistico le sono di ispirazione l’estrema attenzione alla luce e alla forma di Wayne Thiebaud, l’esplorazione iperrealista della sessualità del proprio maestro Brett Reichmann e i provocatori happening dell’artista Jennifer Locke. Inoltre Ana Teresa afferma di aver assurto a modello fondamentale la letteratura latina quanto all’inventività di narrazioni rocambolesche e paradossali inserite nei contesti più realistici e prosaci.

Altro elemento costitutivo dell’iter artistico di Ana Teresa, abile nuotatrice e surfista, è l’acqua. Acqua all’interno della quale l’artista si immerge, ancora una volta in abito da sera, come ritorno ad una condizione primigenia e naturale che presenta tuttavia dagli effetti stranianti. E’ infatti una sensazione di straniamento ciò che l’autrice dell’opera vuole suscitare nello spettatore, obbligato, ancora una volta, a domandarsi “perché?” e, secondo le parole dell’artista, “a trascendere quanto è dato”. L’azione di nuotare vestita simboleggia di fatto l’onere della femminilità che in quest’atto diviene un ostacolo concreto, opponendosi con la frizione dell’abito al movimento spontaneo del nuoto. Inoltre l’immersione nell’acqua, tradizionale momento di purificazione, rappresenta un nuovo spostamento della linea di demarcazione che separa lo sporco dal pulito in una visione schematica della sessualità femminile. Tuffo e catarsi: di nuovo, cancellando il confine.

PER SAPERNE DI PIU’ (e credits delle immagini): www.anateresafernandez.com

 

 

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