Robert Doisneau nasce il 14 aprile 1912 in periferia sud di Parigi, e fin dall’età scolare sogna di mandare tutto all’aria. Calcoli e perfezionismo non sono nella natura del futuro fotografo, il quale con un giro di valzer passa dal “mestiere da seduto” che desidera per lui suo padre al “mestiere da vagabondo”, profondamente radicato in lui. Passando per le professioni di litografo incisore e di disegnatore di manifesti a mano libera, i primi passi d’apprendista fotografo avvengono presso lo studio del pubblicitario André Vigneau.
“Girellavo con il naso per aria contando sulla magnanimità del caso, con un’attrezzatura la cui pochezza mi garantiva dal virtuosismo” [1]
E’ questa l’immagine di un Robert giovane, curioso e irrimediabilmente geniale, scevro di alta tecnologia, nudo e nascente. Ma lo spettacolo è appena cominciato.
Affascinato dalla scrittura e dai modelli letterari, Doisneau si definisce spesso nel corso della sua vita “pescatore d’immagini”: un’espressione che fissa l’attività fotografica come statica, solitaria e tranquilla, e che le fa acquistare una dimensione ludica anche in virtù dell’alto tasso di sorprese, perlopiù incongrue, a cui è soggetta. Ed è proprio all’interno di questa dimensione giocosa che si trovano ad essere narrate le storie colte dal fotografo: storie né troppo descrittive né troppo esplicite, che stimolino l’immaginazione dello spettatore, la danza degli sguardi. Storie che Doisneau vuole “lievi come un battito di ciglia” [2] e che, più che mostrare, sussurrino.
Questa dimensione letteraria si accentua successivamente con il passaggio ad una fotografia “umanistica”, di cui Robert è considerato ancora oggi il padre fondatore. Centrata sulle azioni di vita umane, le storie sono spesso venate d’umorismo, tanto da farlo avvicinare ad umoristi del calibro di Sempé e Savignac. Il suo atteggiamento nei confronti dei soggetti va dalla franca risata alla lieve ironia, una piroetta che disinnesca quelle che sarebbero altrimenti configurate come delle accuse. “Quando penso che l’immagine possa risultare troppo cattiva, faccio una piroetta e la sposto nell’umoristico”[3]. I momenti che predilige sono tutti gioiosi; raramente si avventura in fotografie drammatiche, quelle da lui definite “foto tristi”. Preferisce il senso dell’humour, che prima di essere uno stile fotografico è innanzitutto un modo di stare al mondo. È infatti anche alla base dell’atto fotografico in sé: il fotografo è un giocatore che non deve mai prendersi sul serio; un ballerino da strada e non da teatro, che sappia divertire con la leggerezza di chi non ha pretese.
[1] Doisneau, à l’imparfait de l’objectif, Actes Sud, 1989
[2] Quentin Bajac, Robert Doisneau “pescatore d’immagini”, L’ippocampo, Milano 2012, p. 74
[3] Idem, p.76
Per saperne di più: robert-doisneau.com