La “Scuola di Atene” rappresenta senza dubbi una tra le più emblematiche rappresentazioni artistiche del patrimonio rinascimentale italiano: quella fertilissima culla della nostra cultura scambiata troppo spesso per tomba.
Raffaello Sanzio dipinse l’affresco tra il 1509 ed il 1511 incaricato da papa Giulio II, il pontefice guerriero rivale di Rodrigo Borgia che trasformò il potere spirituale della sua Chiesa in sottomissione politica sull’Italia centrale.
L’affresco racchiude in un’unica cornice tutte le eccelse menti del passato pre-cristiano, dedite nel corso delle loro vite alla filosofia, alla matematica, alle scienze.
Su tutti svettano i più che noti Platone ed Aristotele, il primo con l’indice puntato al cielo a richiamo del suo “mondo delle idee”, il secondo con la mano tesa alla terra indicante il ritorno al mondo sensibile rifuggito dal maestro.
Non solo i gesti sintetizzano il nucleo delle loro riflessione, ma ancor più lo fanno i libri che reggono nell’altra mano: il Timeo per Platone, l’Etica Nicomachea per Aristotele. Ma non è questo il campo per indagarne i contenuti.
Ciò che possiamo invece indagare, o meglio svelare, sono le identità dei co-protagonisti dell’affresco, adombrati dalla possanza (razionale e figurativa) dei due filosofi greci.
Limitandosi ad uno sguardo di insieme e soffermandosi solo sulle due figure centrali, sfugge la nozione degli altri personaggi, sicuramente curiosi e non ritratti per caso.
Avendo infatti la piena conoscenza delle identità ritratte, avremo di conseguenza ricostruito il pantheon culturale della Roma del XVI secolo, ovvero vedremo le radici di questo monolitico universo clericale.
Iniziamo dunque questa “caccia al volto”, partendo dalla sinistra dell’affresco.
Appena accennato, scorgiamo in un angolo il volto di Zenone di Cizio, un vecchio dalla barba bianca che regge in braccio un infante. È questi il fondatore della scuola filosofica dello stoicismo, sorta in Grecia nel periodo ellenista e perpetuata anche nel mondo romano.
Al suo fianco sta il fondatore dell’altra importantissima scuola filosofica dell’epoca, ovvero Epicuro, fondatore dell’epicureismo, filosofia per una certa epoca osteggiata dalla Chiesa e tornata in voga -guarda caso!- durante il Rinascimento.
Questo volto potrebbe in verità incarnare anche la metafora di un rito orfico, volendo leggere -come nel caso dello storico della filosofia Giovanni Reale- la corona di pampini come simbolo di Dioniso e non del piacere ricercato dagli epicurei.
Sbuca alle sue spalle il volto di un fanciullo, probabilmente Federico II Gonzaga, il bislacco duca mantovano che combatté sia con il Papa che con l’Impero.
Si affaccia al suo fianco il filosofo arabo Averroè; colui che fece “il gran commento” all’opera di Aristotele viene raffigurato giustamente negli abiti orientali, il che non lascia spazio a dubbi.
Al contrario ne porta molti la figura sotto di lui, la cui identità ancora non é chiara: forse Anassimandro, forse Empedocle, forse il filosofo romano (e cristiano) Severino Boezio.
Ad ogni modo, colui che sia Averroè che l’ignota figura osservano dovrebbe essere Pitagora, intento nella scrittura sotto gli occhi vigili dei compagni, con suo figlio, il filosofo Telauge che gli sorregge una lavagnetta.
Al fianco di questo piccolo gruppo, si erge con il suo sguardo penetrante ed estraniato dal contesto l’immagine di Ipazia nel suo abito bianco, matematica, astronoma e filosofa greca. In verità sarebbe questa una kalokagathia, ovvero l’emblema della perfezione umana (fisica e spirituale) secondo il paradigma classico del “bello e giusto”.
China al suo fianco ancora lo sguardo su Pitagora Parmenide, il filosofo dell’Essere che è “immutabile, ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile ed eterno”.
Sembra al contrario malinconico Eraclito, seduto sulle scale e svogliatamente intento nella scrittura. Per ritrarre il filosofo pare che Raffaello abbia copiato le sembianze del collega contemporaneo Michelangelo Buonarroti, del quale sempre in Vaticano si é giusto sentito parlare…
Rimanendo sulla scalinata, seduto in malo modo appare un vecchino trasandato ed incurante: trattasi di Diogene di Sinope, il caposcuola del cinismo. Il che molto spiega sulla sua apparenza…
Arriviamo quindi al gruppo in basso a destra.
Dei fanciulli si accalcano intorno ad una lavagnetta sulla quale un uomo disegna col suo compasso. Trattasi di Euclide, anche se non possiamo escludere l’ipotesi Archimede. Chiunque egli sia, certamente i ragazzi intorno avranno di che imparare.
Regge un globo celeste dietro di lui il profeta iranico Zoroastro, forse meglio noto come Zarathustra, intento a discutere con un altro astronomo che ci volge le spalle: Tolomeo.
Assiste alla conversazione un giovane pittore che guarda verso il suo pubblico: è lo stesso Raffaello che si autodipinge, prestando il suo volto alla figura del pittore greco Apelle, probabilmente oggi più noto (ahi lui!) per la filastrocca che lo vede protagonista che per le sue opere. Al suo fianco un altro pittore della Grecia antica, Protogene, amico e rivale del suddetto Apelle.
Passiamo adesso al piano più alto, quello di Platone ed Aristotele, partendo sempre da sinistra.
Non é noto chi siano le prime due figure che compaiono, mentre il guerriero con l’elmo in testa ed il rosso cimiero è niente meno che Alessandro Magno, allievo (tra l’altro) del non lontano Aristotele.
La figura ingrugnita nel suo peplo rosso al fianco dell’imperatore potrebbe essere il filosofo Antistene, oppure lo storico Senofonte.
Testa sorretta e celeste vestito, volge il suo sguardo all’intrattenitore in verde il retore ateniese Eschine, sebbene anche la sua identità non sia sicura.
È invece certo che ad intrattenere questo piccolo gruppo sia il grande Socrate, intento con furioso impegno nella discussione, assorbito corpo e mente dalla sua pratica maieutica.
Gli studi e le ricerche non hanno permesso di dare nome agli altri personaggi che abitano questo taglio superiore dell’affresco, annichiliti dalla magnetismo dei due grandi maestri al centro.
Ha nome solamente la figura in rosso sulla destra, isolato nel suo dipinto disprezzo, granitica statua di se stesso. Si trarrebbe del filosofo greco Plotino, il padre del neoplatonismo, ispiratore di ampie riflessioni etiche e teologiche in ambito cristiano e non solo in quello.
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fonti: studio da parte dell’autore
foto: copertina