30 anni campagne pubblicitarie AIDS

Dossier| 30 anni di campagne pubblicitarie contro l’AIDS

Sono ormai passati 30 anni dalla prima campagna pubblicitaria in Italia contro l’AIDS: un periodo di tempo abbastanza ampio per tracciare qualche bilancio. Alcune pubblicazioni di carattere specialistico hanno opportunamente iniziato a farlo, e dalle loro analisi sono emersi spunti di riflessione che però, data la natura di tali studi, rischiano di restare confinate alle ristrette cerchie degli addetti ai lavori. E sarebbe un peccato, sia per la tematica importante per tutti, sia per le questioni comunicative che vi stanno dietro. Oltretutto ai tempi di YouTube e Google è possibile per chiunque avere a disposizione facilmente il materiale di anni e anni e farsi così un’idea senza doversi far guidare da griglie concettuali eccessivamente stringenti, spesso animate da ideologie professorali e pregiudizi settoriali (la discutibile scientificità delle discipline umanistiche).

Le prime campagne pubblicitarie contro l’AIDS risalgono al 1987: la malattia aveva fatto la sua comparsa in Italia da qualche anno e ci si iniziava a porre il problema di come affrontare l’insorgente pandemia mondiale. I primi obiettivi furono proprio cercare di contenere le narrazioni mediatiche incentrate sull’idea di una “nuova epidemia”, quasi una moderna peste che richiedeva di dare la caccia agli untori, considerati intoccabili e relegati allo stigma sociale. La prima campagna di Pubblicità Progresso si pose infatti l’obiettivo di far comprendere che i rapporti umani non trasmettono il virus (era proprio questo il claim). Il tema delle protezioni era lasciato in sottofondo: l’obiettivo era più sociale che sanitario.

Ma già l’anno successivo uno spot realizzato dal Ministero della Salute, pur partendo dalla stessa idea di base (contrastare alcune credenze popolari sull’AIDS, ricordando che L’AIDS non si trasmette con un bacio, con una stretta di mano, scambiandosi un bicchiere o usando le stesse posate), fa esplicito riferimento al preservativo come metodo di protezione.

Sono gli anni più terribili della pandemia e l’urgenza di porre un freno a questa malattia per la quale non si intravedeva una cura valida spinge presto a tornare a un linguaggio tutto giocato sulla paura. La nuova campagna di Pubblicità Progresso del 1991 in un certo senso può essere considerata un ribaltamento di quella iniziale del 1987. Il bianco e nero cupo e angosciante viene rotto solo dall’evidenziazione in rosa dei contorni delle figure colpite da AIDS: il messaggio, suffragato anche da un infelice claim (Se lo conosci lo eviti), sembra quello di ritornare allo stigma sociale, generalizzato e oltretutto imperscrutabile, se non può neppure ritenersi al sicuro la povera donna di casa la cui unica colpa è quella di avere un marito fedifrago. Del resto già l’anno prima la pubblicità del Ministero della Salute era tutta incentrata sull’incutere angoscia e terrore (Non avere paura di salvarti la vita: dillo all’AIDS).

La necessità di proporre uno stile di vita più sicuro contro la diffusione dell’AIDS negli anni successivi trova una diversa espressione: iniziano a comparire i testimonial. Nel 1995 Kim Rossi Stuart, allora idolo dei giovani, esorta a evitare i rapporti sessuali occasionali, usare il preservativo, non drogarsi, non utilizzare le siringhe usate. Nel 1999 viene prodotta dalla cattolicissima Lux Vide una mini fiction in 8 puntate, tutta incentrata sulla storia di 5 giovani che vivono insieme in un appartamento e che, volenti o nolenti, sono costretti a confrontarsi con il problema dell’AIDS. I meccanismi della serialità e del finale con happy ending introducono in un discorso comunicativo che fino ad allora si era mosso sui binari della paura e della criminalizzazione un registro più accattivante e più vicino al target giovanile di riferimento.

Dagli anni ‘2000, passata la fase emergenziale, il discorso si sposta sulla necessità di non abbassare la guardia dopo che i notevoli progressi nella cura e nella speranza di vita per i sieropositivi potevano far sorgere un abbassamento della soglia d’allerta. La campagna del 2000 aveva come messaggio proprio L’AIDS c’è sempre, non dimentichiamolo mai. Per il resto restava ancorata a una narrazione didascalica sulle cose da fare o non far per prevenire il contagio.

Più innovative nello stile furono le campagne degli anni 2002 e 2006. La pubblicità del 2002 riprendeva l’uso di testimonial famosissimi, come Renato Pozzetto e Michelle Hunziker, ma lo stile basato sull’allusività più che sulla didascalicità pedante finì per scontrarsi nelle maglie censorie del politicamente corretto agli albori, scandalizzato per l’omissione della parola magica preservativo, in realtà chiaramente allusa soprattutto nello spot di Michelle Hunziker.

Anche la campagna del 2006, costruita su giochi di parole e immagini evocative, non menzionava esplicitamente il preservativo, ma non perché lo escludesse per principio ma per una scelta stilistico-comunicativa, che giocava su altri piani, non meno efficaci comunicativamente rispetto a uno stile pubblicitario che in ormai quasi 20 anni aveva raggiunto una certa ripetitività nella sostanza e nella forma.

Le polemiche politico-culturali che accompagnarono queste due campagne ministeriali hanno portato le successive a fossilizzarsi in maniera sempre più esclusiva sul tema del preservativo. Nel 2008, per esempio, la campagna del Ministero della Salute finisce per ridursi a una scenetta costruita intorno al concetto che bisogna vincere la paura di andare in farmacia a comprare preservativi: a dare una patina di scelta alla moda arriva anche l’aggiunta finale di Ambra Angiolini.

Questa linea ha sostanzialmente caratterizzato tutte le campagne ministeriali successive. Ancora nel 2012 il canovaccio era praticamente lo stesso, solo riaggiornato nelle forme di coppia e nei testimonial.

La riduzione è stata ancora più evidente con la campagna dell’anno scorso, incentrata praticamente soltanto sui due testimonial Giulia Michelini e Dario Vergassola.

Anche cartellonistica, opuscoli e materiali vari hanno accompagnato queste campagne televisive, non scostandosi però spesso molto dalla controparte Tv, su cui si sono sempre concentrati maggiormente gli sforzi di sensibilizzazione pubblicitaria. Non sono stati poi solo gli organi dello Stato a promuovere campagne sul tema: anche realtà private hanno affrontato l’argomento. Non si dovrebbe però dare troppo spazio a pubblicità come quelle di Toscani per Benetton, solitamente celebrate oltre misura, omettendo gli aspetti problematici di tali operazioni di marketing che rischiano di strumentalizzare tematiche così importanti per fini commerciali e di celebrità personale.

Quale bilancio quindi si può trarre da questo trentennio di campagne sul tema dell’AIDS? I grandi esperti del settore, nel presentare il libro di Emanuele Gabardi Stop Aids. I linguaggi della pubblicità contro l’Aids in Italia e nel mondo, hanno descritto queste campagne pubblicitarie italiane come inefficaci, sciatte e espressione di un ambiente culturale che, rispetto agli altri Paesi, ha ancora difficoltà in pubblicità a parlare esplicitamente di preservativi. Ma questa affermazione, anche solo dalla rassegna storica che abbiamo tracciato, si rivela gravemente falsa: le campagne pubblicitarie italiane, praticamente fin dall’inizio, hanno sempre fatto esplicito riferimento ai preservativi (a parte alcune limitate eccezioni, che comunque vi alludevano). È poi davvero sorprendente che esperti di Comunicazione possano dimenticare che la cultura audiovisiva italiana ha ben poco da imparare dall’estero sul tema della libertà di rappresentazione della sessualità. L’Italia già negli anni ’60-’70 aveva tra i suoi più celebrati intellettuali e registi Pier Paolo Pasolini. Film come Decameron, Le mille e una notte e Salò o Le 120 giornate di Sodoma probabilmente ancora oggi nel mondo anglofono non vedrebbero mai la luce (per non parlare dell’interessante documentario Comizi d’amore, che già nel 1964 documentava in Italia una morale sessuale di dominio comune molto diversa da quanto ci si potrebbe aspettare).

Il problema probabilmente è che i guru del Marketing avrebbero preferito quelle pubblicità brillanti e ridanciane, in cui ogni questione seria deve essere trasfigurata in sorrisi e sdrammatizzazioni prive di ogni riferimento agli stili di vita (questo sì un aspetto quasi sempre escluso nelle pubblicità inglesi, francesi e tedesche sull’AIDS). In realtà però alcuni piccoli studi statistici hanno dimostrato che il registro brillante non è percepito affatto dal target di riferimento come il più appropriato: il dramma dell’AIDS non ha bisogno di essere trasformato in un fenomeno alla moda, ma è un tema su cui riflettere per costruire di conseguenza i propri comportamenti e il proprio stile di vita.

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