I poeti non esistono più

Q. e S. si trovano in un salotto letterario. Musica classica aleggia nell’aria e maggiordomi in livrea fanno scivolare vassoi carichi di drink sofisticati tra vecchi impomatati e professori dall’aria malinconica. Q. bisbiglia all’orecchio di S., ha le mani sudate e la gola secca.
Q: «Che cavolo ci stiamo a fare, qui?»
S: «Vuoi smetterla di chiederlo? E poi non essere così nervoso, mi metti in imbarazzo.»
Q: «Come fai tu a non essere nervoso! Noi siamo abituati a tutt’altri ambienti, e lo sai…»
S: «E dài, mia sorella ha insistito così tanto perché venissimo…»
Q: «Tua sorella è stata invitata solo perché ha in programma di portarsi a letto tutta l’alta classe della città. È una tr…»
S: «Ehi! Tieni a freno la lingua!… solo io posso dire che è una troia.»
I due scoppiano a ridere, ordinando due bicchieri di vino al bancone del bar.
Ecco che arriva F., la sorella di S., facendosi strada in mezzo a un’orda di colletti inamidati. Ha sottobraccio un tipo distinto che più che sembrare vecchio, sembra un giovane che ha vissuto la sua vita troppo velocemente.
F: «Ragazzi! Vi state divertendo? Lui è J. Sapete, è un poeta!»
S. per poco non sputa il vino in faccia ai due.
S: «Un poeta? Macché! I poeti non esistono più!»
F. contrae il rossetto delle labbra in una smorfia stizzita, sta per rispondere a tono a S., ma J. la placa con una leggera carezza sulla spalla di lei.
J: «Ha proprio ragione, sa? La poesia non esiste più… tutto ciò che poteva essere detto è stato detto, e in tutti i modi conosciuti all’uomo, con ogni possibile variante di forma e contenuto. È desolante capire di non poter più trovare parole, sapete?»
Q: «E lei, allora, di cosa parla nelle sue poesie?»
J. sorride velatamente, spostando gli occhi sul soffitto.
J: «Di nulla, ragazzo mio. Proprio di nulla.»
F. e J. si congedano e si riuniscono al gruppetto di poco prima. Quando sono abbastanza lontani, S. scoppia in una risata soffocata a stento.
S: «Ma lo hai sentito? Che soggetto del cavolo! Ma dài, come si fa a dire boiate del genere? Vedi, è per prendere per il culo gente così che sono voluto venire.»
Q: «Già, era proprio un cretino…»
Q. e S. trascorrono il resto della serata a bere, e sono sul punto di traballare quando viene annunciato che il grande poeta J. sta per leggere una poesia dalla sua ultima silloge. Gli invitati si accalcano attorno all’asta del microfono dietro cui si trova J.
J. si abbandona in un lungo, lungo respiro. Non è quasi più nella stanza, ora è rimasta solo la sua voce, ma è più solida e tangibile del suo corpo. Con gli occhi chiusi, inizia a recitare:

Ai vivi:
Bestie lente,
Bestie lente a te, tu rude oboe del marchio.
Bestie lente,
Bestie lente ma sarti puri dà a me alla cena.
Sibilo ruota!
Sibilo è là!
Sibilo solare,
Sibilo solare muta ella.
Già ella lambisci,
Già ella lambisci tra i vivi,
Qui il cuneo rotò ma è lento…
Hai sette anni tra i vivi,
Qui il cuneo cos’è? Be’, è lento…
Semmai avrai i miei elmi duri:
Sibilo ruota!
Sibilo è là!
Sibilo solare,
Tu sai cosa rischi.
Sai cosa rischi, sibilo solare…
Ma son io.

J. si inchina. Dietro lo scrosciare di applausi, dietro i colletti inamidati estasiati, S. ride così di gusto che deve reggersi al bancone del bar per non cadere. Ammicca a Q., picchiettandogli sulla spalla con il gomito.
S: «Ma ti rendi conto? Il grande poeta, lo chiamano! Ma se non ha fatto altro che mettere parole a caso una dietro l’altra! Avrei potuto farlo io a cinque anni… che roba… allora era serio, quando diceva che le sue poesie parlano di nulla! Q., ma mi stai ascoltando?»
S. si volta, e vede che Q. sta ancora fissando J., con gli occhi sbarrati, e il viso coperto di lacrime.


FONTI
Racconto di Daniel Chiasso

CREDITS
Copertina

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