Back to the quality: vinili e gourmet che fanno ben sperare

di Federico Lucrezi

 

“Pull it out, a paper sleeve…   Oh, my joy. Only you deserve conceit.

You’re so warm…    Oh, the ritual. As I lay down your crooked arm.”

(Pearl Jam – Spin The Black Circle, 1994)

 

 Il mercato della musica in vinile è in grande crescita.

Una crescita testimoniata tra l’altro dalla quasi totalità delle nuove uscite discografiche lanciate sul mercato in doppio formato, dalla ristampa dei grandi classici e dalla recente chiusura di una delle più grandi fabbriche di compact disc d’America. Un fatto, quest’ultimo, che apparirebbe come uno dei tanti prodotti dell’esplosione del mercato musicale digitale e dei servizi di streaming legale se non fosse appunto che dall’altra parte le vendite dei dischi in vinile impennano.

È HMV, storica catena di negozi musicali britannica, a sancire a fine 2017 il ritorno in pompa magna del vinile. L’anno da poco concluso passerà alla storia come quello in cui il vinile è tornato ad attestarsi su numeri paragonabili a quelli registrati nel 1990, prima dell’ascesa del CD. Sono dati veramente impressionanti.

Come un formato molto meno economico del più conveniente compact disc, difficilmente portatile e certamente non paragonabile ai file digitali in mp3 in quanto a reperibilità a costo zero possa avere così successo nell’epoca della comodità e della gratuità, appare a prima vista decisamente poco comprensibile.

Tutte le grandi tendenze trovano nella loro crescita una componente di omologazione più o meno rilevante: c’è chi come Apple è addirittura riuscita negli anni a creare un impero e innalzarsi a status symbol mondiale fidelizzando al limite della patologia i propri omologatissimi clienti. Anche il vintage, dal canto suo, ha il suo fascino e certamente il vinile non è estraneo a questa dinamica. Ma numeri così importanti non si spiegano soltanto con il proliferare di alternativi, hipster e ragazzine in cerca di like su Instagram.

 

Semplicità vs complessità

Negli anni 90 il vinile inizia a conoscere un lento declino in favore dell’emergente CD: comodo, universale.

La riproduzione analogica della musica dal disco in vinile avviene con una puntina che vibra seguendo le irregolarità dei solchi in cui scorre. Queste vibrazioni vengono poi convertite con appositi sistemi di trasduzione nel segnale che, amplificato, arriva al nostro orecchio. Ben diverso è il principio alla base del compact disc: in questo caso il segnale digitale è letto con un sistema ottico che non viene in contatto con il disco in rotazione.

Quando gli album cominciano a uscire in CD l’impressione degli ascoltatori, abituati al vecchio giradischi, è di avere a che fare con un suono molto più pulito, freddo, asettico. Questa caratteristica, che inizialmente fa storcere il naso ai puristi, è al tempo stesso il principale punto di forza del CD. Il disco riprodotto in auto su un lettore portatile, a casa o in ufficio è lo stesso disco. La stessa musica. Un altro mondo rispetto al vinile, il cui suono più sporco e caldo era dovuto principalmente alla polvere sul disco e all’impianto in uso.

Ascoltare un CD è un processo che inizia e si esaurisce con l’inserimento del disco e la pressione del tasto play. Ascoltare un vinile è un’operazione complessa. Lo stesso disco su due impianti differenti può suonare completamente diverso e allo stesso modo diverse edizioni del medesimo disco possono regalare un’esperienza di ascolto molto differente. Non è raro che un appassionato possieda più versioni dei dischi dell’artista preferito.

 

Ritorno alla qualità

Possiamo affermare di essere di fronte a un ritorno alla qualità, seppur non necessariamente dal punto di vista del suono. Se il CD sia o meno paragonabile a livello qualitativo al vinile è una questione parecchio dibattuta, su qualsiasi forum o sito di audiofili si trovano articoli e tesi molto diverse.

Ma certamente è un ritorno alla qualità dal punto di vista dell’ascolto, di quella complessità e ricerca a cui il vinile inevitabilmente sottopone l’utente.

Non siamo lontani da quello che sta accadendo a tavola. McDonald’s, simbolo del concetto stesso di fast food, ha conosciuto di recente una crisi senza precedenti, proprio mentre la tv d’intrattenimento sta puntando forte sui programmi a sfondo culinario. Attenzione al chilometro zero, interesse per la filosofia che sta dietro i piatti che mangiamo, il tutto accompagnato dal boom degli istituti superiori alberghieri.

Cambia la qualità, probabilmente, non tanto dei piatti che mangiamo, ma dell’attenzione e la cura che diamo al nostro approcciarci alla cucina stessa.

È uno schema che sembra accomunare questi due mondi, che fa ben sperare. Non combatteremo la crisi culturale contemporanea con un vinile dei Dire Straits o con un antipasto di Carlo Cracco ma certamente il proliferare di utenti che si approcciano a musica, cucina e arte in generale con qualità e complessità è un segnale incoraggiante.

 


 

Foto1 Foto2 Foto3  Foto4 Foto5

Fonti: Webnews

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.