Ha circa 35 anni, Herman Melville, quando stende sulla pagina uno dei suoi racconti più famosi, Bartleby lo scrivano. Scritto celebre e anche discusso, che ha posto l’autore nel novero dei precursori della letteratura dell’assurdo.
Ci sono due modi per parlare di Bartleby lo scrivano: uno sembra riuscirmi, l’altro ha a che vedere con i tentativi eroici dei cortocircuiti letterari.
La trama, infatti, non è complessa: pochi fatti, anche meno i personaggi. Ma più la lettura è scorrevole, e più si ha la sensazione di un tranello: non è tutto lì, in quella lettura immediata, descrittiva.
C’è un notaio, è il primo Ottocento, siamo a New York. A Wall Street. Interno di uno studio legale.
La voce narrante, in prima persona, è quella del notaio, appunto. Molte righe sono spese sullo stato delle cose prima dell’arrivo del protagonista, Bartleby. L’immagine che riga dopo riga prende forma è quella di una vita borghese, scolorita, anche un po’ scialba, funzionale ad accogliere un personaggio eccentrico ma privo delle stranezze. Non è un ossimoro, è lo stato delle cose.
Per il notaio lavorano già due scrivani, singolari per davvero questi. Uno che non riesce a lavorare bene al mattino perché soffre d’insonnia e l’altro le cui prestazioni peggiorano dal mezzodì in poi. Ma il notaio con compromessi impercettibili, li domina, li controlla, li contiene. Quindi: il notaio è in grado di dominare le eccentricità.
Bartleby, ai suoi inizi, appare composto e cioè quasi bizzarro per colleghi del genere.
Ma poi:
“[…] fu scrivano, il più stravagante di quanti abbia mai veduto, o di cui abbia avuto notizia. Laddove, di altri scrivani, potrei scrivere l’intera vita, nulla del genere è possibile nel caso di Bartleby. Ritengo non esistano documenti per una completa e soddisfacente biografia di quest’uomo. Il che, per le lettere, è senz’altro un danno irreparabile. Era Bartleby uno di quegli esseri, dei quali nulla è possibile accertare, salvo ricorrere a fonti originali, che in tal caso, sono molto scarse. Quanto i miei occhi attoniti videro di Bartleby, questo è tutto ciò che so di lui, oltre, in effetti, ad una vaga notizia che verrà riferita in seguito”
Ecco la prima trappola: un meccanismo di cattura. Di Bartleby il narratore ci dirà qualcosa, ma bisogna aspettare e cioè resistere alle stranezze, agli incarichi, alle visite, alla vita d’ufficio insomma.
E succede che Bartleby comincia a sottrarsi ai compiti assegnatigli, con un cortese, quanto fermo Preferirei di no. E così fino alla fine. Di giorno in giorno, di condizionale in condizionale.
Il notaio ha l’abitudine a sapere e capire, ma quest’uomo, proprio non gli riesce di capirlo. Improvvisamente si trova di fronte un uomo calmissimo che però rifiuta di fare le cose, qualsiasi cosa. Dunque uno che vuole sapere tutto e l’altro che rifiuta di dare qualsiasi spiegazione.
Il fatto è che, dall’inizio alla fine, Preferirei di no ha l’aria di essere una cosa rivoluzionaria. Nonostante la calma cantilenante di Bartleby, nonostante la calma del notaio.
Il racconto è stato terreno privilegiato di accanimenti e interpretazioni.
Questa storia sarebbe lo spunto di Melville per snocciolare le possibilità della filantropia: tutti noi di fronte ad una situazione di miseria reagiamo con animo positivo, e quando ci accorgiamo che è inutile e non risolutivo guardiamo a soluzioni di sbarazzamento.
Preferirei di no può essere l’espressione di chi, per saturazione, non desidera più nulla? E questo ha non poche implicazioni sociali e politiche.
Come scriba che ha cessato di scrivere, Bartleby potrebbe rappresentare il nulla da cui procede la creazione e un’implacabile rivendicazione di questo nulla come potenza. È l’abisso vertiginoso della possibilità.
Alla fine l’autore non ci viene incontro. E quando provi a chiedere al testo di suggerirti chi è Bartleby, il testo sembra rispondere Preferirei di no.
Herman Melville, Bartleby lo scrivano