Sulle case chiuse e la mercificazione dei corpi #2: il modello nordico

Di Sarah Maria Daniela Ortenzio

Il 6 aprile 2016 il parlamento francese approvava una legge sulla prostituzione (con 64 voti a favore, 12 contrari e 11 astensioni) nel solco del modello nordico, che prevede la criminalizzazione del cliente e l’impunità per chi esercita il meretricio. Come già evidenziato nel precedente articolo, la prostituzione è una problematica complessa e ampiamente dibattuta, su cui è difficile costruire un giudizio fondato o formulare una proposta che risolva in modo efficace tutti punti delicati presentati dal caso. Può dunque essere utile indagare innanzitutto i modelli legislativi attivi in Europa che, nonostante una risoluzione approvata dal Parlamento Europeo, continuano a essere grandemente eterogenei e discordanti in tutto il continente.

 

IN COSA CONSISTE IL MODELLO NORDICO

Inizialmente il modello nordico germoglia in Svezia, dove nel 1998 viene adottata una particolare legge proibizionista che prende di mira i consumatori, ritenuti responsabili di perpetuare una delle più longeve forme di oppressione e di svilimento delle donne. In quest’ottica le prostitute sono sempre vittime di sfruttamento, e non è contemplata la possibilità di una libera scelta. Gli obiettivi strategici della legge sono in  primo luogo quello di promuovere l’uguaglianza di genere, di tutelare le donne dalla violenza perpetrata dagli uomini e infine quello di offrire un sostegno pubblico alle lavoratrici, finalizzato alla totale eliminazione della prostituzione, in quanto “grave violazione dell’integrità della donna“. Dalla Svezia il modello nordico è passato in breve tempo in Islanda, Norvegia, Finlandia, Irlanda e, recentemente, in Francia.

 

CRITICITÀ

Nonostante possa sembrare a prima vista un’efficace soluzione al problema, il modello nordico presenta numerosi punti deboli, e i suoi detrattori militano anche nelle file dei movimenti femministi e intellettuali.

Per esempio, la filosofa Elisabeth Badinter sottolinea il rischio di cancellare bruscamente una delle conquiste più importanti del secolo scorso, ovvero la libertà di disporre del proprio corpo: pur ammettendo lo sfruttamento e la tratta, non si possono negare i casi in cui l’esercizio della prostituzione avviene per scelta volontaria e incondizionata. Proibirla significherebbe dunque mettere in atto una vera e propria azione censoria sulle attività sessuali dei singoli. In questa prospettiva, inoltre, le persone che esercitano verrebbero ritenute esclusivamente vittime passive, e ciò ha la naturale conseguenza di silenziare senza eccezioni la voce delle persone che si guadagnano da vivere in tal modo.

Secondo uno studio del 2014, incentrato sugli effetti della legge del 1998 in Svezia, di Jay Levy e Pye Jakobson, la penalizzazione dei clienti risulta efficace solamente nel contrastare la prostituzione di strada. Infatti non è stato riscontrato alcun miglioramento né a livello statistico, né nelle condizioni di vita delle/ei lavoratrici/ori, che continuano a esercitare in locali chiusi e a essere oppressi dalle forze di pubblica sicurezza, che in certi casi arriverebbero a ricatti e ritorsioni. Inoltre il doversi concedere in luoghi clandestini sarebbe un ulteriore elemento di rischio: la strada come piattaforma di compravendita non è più necessaria con l’avvento di internet, in cui i siti e i forum sono anche più difficilmente controllabili dal governo. Per chi si prostituisce è potenzialmente più pericoloso incontrare uno sconosciuto in un luogo estraneo, piuttosto che sulla strada.

In aggiunta, non può sfuggire la marcata esclusività della legge, che si dichiara finalizzata alla tutela delle donne, lasciando ai margini gli uomini che spesso soggiacciono allo stesso sfruttamento e alla stessa oppressione. Un provvedimento legislativo che voglia tutelare davvero gli individui e al contempo ribadire l’uguaglianza di genere non può prescindere dalla constatazione che gli schiavi sessuali non hanno un genere precostituito. Basti pensare alle persone transgender costrette al meretricio in contesti di degrado, in cui ogni aiuto sociale è difficile da ottenere e che subiscono ancora oggi una forte emarginazione sociale e culturale.

Questo atteggiamento è sullo stesso livello del maschilismo più brutale, anche perché identifica solamente le donne come parti lese, relegandole in tal modo a una condizione di passività permanente, di isolamento e alterità discriminata. Infine, vengono proposte azioni di sensibilizzazione e di riforma culturale senza avere i mezzi organizzativi o economici per realizzarle: il risultato sembra essere una violenza appartata, il classico cumulo di polvere sotto il tappeto, in cui coloro che sono sottomessi agli abusi non hanno ancora una sicura via d’uscita.

 


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