Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 ebbe inizio quello che gli armeni hanno definito come Medz yeghern, “il grande crimine” compiuto a loro danno dall’Impero ottomano. Fu il primo genocidio del XX secolo, ma solo ventinove Paesi nel mondo (tra i quali l’Italia) hanno riconosciuto nella persecuzione delle minoranze cristiane da parte del governo islamico una vera e propria volontà di sterminio.
Molte delle grandi potenze mondiali ancora non si esprimono per non incrinare i rapporti diplomatici con la Turchia, che ha sempre invocato la legittimità di manovre militari attuate esclusivamente per salvaguardare l’integrità dell’Impero durante il conflitto mondiale.
Infatti l’Armenia, stato dal VI secolo a.C. ma per gran parte della sua storia assoggettato ad altre potenze, fu il primo a riconoscere il Cristianesimo come religione ufficiale (301 a.C.) e continuò a aggrapparsi a essa per ribadire la propria identità. Indoeuropeo e miscredente, il popolo armeno fu vittima della persecuzione islamica, particolarmente accanita a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo.
Esso era ritenuto responsabile della crisi economica e politica dell’Impero: si temeva che potesse favorire dall’interno la Russia ortodossa. Il sultanato favorì l’invasione dei mussulmani curdi dei territori dell’Anatolia abitati dagli armeni, che furono costretti a ripiegare verso le regioni caucasiche sotto il dominio dello Zar, ed ebbe così il pretesto per avviare pogrom contro i ribelli. L’odio raziale si inasprì all’alba della Grande Guerra, quando salì al potere il Movimento progressista dei Giovani Turchi, che voleva riformare l’Impero ottomano trasformandolo in un occidentalizzato “Stato nazione” dalla chiara identità turca. In esso non c’era spazio per minoranze etniche e religiose.
L’epurazione fu condotta in modo programmatico dalle forze turco-curde, che si avvalsero di un’Organizzazione Speciale paramilitare, composta per lo più da ex-detenuti, alle dipendenze del Ministero della Guerra. Lo sterminio di 1,5 milioni di armeni cominciò il 24 aprile di centotré anni fa con una retata organizzata nella capitale dell’Impero, Costantinopoli, che determinò la cattura di 600 armeni, strangolati poi con filo di ferro. Nei giorni successivi i rappresentati delle élites politiche, intellettuali e religiose armene vennero deportati e seviziati con crudeltà.
Intanto 25.000 giovani armeni avevano risposto alla chiamata alle armi per dimostrare la propria fedeltà all’Impero: essi furono le vittime della prima fase della strage. Poi vennero attaccati i villaggi e furono massacrati indiscriminatamente gli uomini rimasti, di età superiore ai 45 anni e fino ad allora sfruttati come lavoratori agricoli, le donne, i bambini e gli invalidi. I sopravvissuti furono deportati in massa verso regioni isolate, come la siriana Dier ez Zor, in campi di prigionia.
Marce estenuanti nel deserto durante le quali gli aguzzini si divertivano a inchiodare ferri di cavallo ai piedi delle loro vittime, accanendosi in particolare contro i sacerdoti cristiani, ai quali venivano spesso strappati occhi, denti e unghie. Ad attendere i sopravvissuti erano solo nuove minacce di morte, per mano dei carcerieri o per la fame, la sete e le inevitabili epidemie. Pochi sopravvivevano e per lo più erano quelle donne che, dopo essere state forzatamente convertite e stuprate, erano vendute a bordelli o harem.
Discendenti di sopravvissuti al genocidio sono i membri del gruppo musicale statunitense System of a Down, che ha tematizzato la tragedia in alcuni suoi brani portandola all’attenzione del grande pubblico.
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