Dossier| Prospettive e implicazioni sociali di un gap year

Impropriamente tradotti e altrettanto erroneamente accostati, gap year e anno sabbatico non rappresentano affatto la stessa esperienza. Anche in questo caso la generazione dei millennials si fa pioniera di un argomento tanto dibattuto quanto eterogeneamente percepito a livello sociale. Tradizionalmente poco affine al tipico mindset italiano scuola-università-lavoro, in altri contesti nazionali rappresenta al contrario un passaggio quasi obbligato nella vita di tutti i giovani, tollerato, incoraggiato e agevolato a livello accademico e statale.

Per quanto Regno Unito e Germania rimangano a oggi i due Paesi in cui la tradizione risulta maggiormente radicata e che continuano a sfornare il maggior numero di gappers, l’analisi dei dati empirici mostra un trend destinato a mutare nel corso dei prossimi anni: se da un lato i giovani statunitensi che optano per un gap year continuano ad aumentare esponenzialmente, dall’altro lato il Ministero dell’Istruzione inglese mette in guardia sui possibili effetti nel lungo periodo, mentre l’Australia si cristallizza sempre più nel suo ruolo di Paese ricevente che allo stesso tempo cerca di scoraggiare i suoi giovani a intraprendere un gap year.

Tra sondaggi governativi e ricerche accademiche, l’analisi non lascia comunque spazio a interpretazioni univoche del fenomeno, che necessita di essere declinato a seconda delle peculiarità culturali e socio-economiche di ogni Paese che viene preso in considerazione.

A ogni modo, abbandonando per un secondo l’ambito teorico, una volta presa la decisione di lasciare il proprio nido, i contro non potranno mai eguagliare i pro di un’esperienza tanto costruttiva quanto ricca a livello personale, soprattutto per una fetta di popolazione ambiziosa, intraprendente e testarda come quella della cosiddetta Y Generation.

Brits and Germans: ne è rimasto qualcuno in patria?

Per quanto possa sembrare una battuta, a giudicare dalla quantità di ragazzi inglesi e tedeschi che affollano gli ostelli di tutto il mondo verrebbe davvero da chiedersi se ne sia rimasto ancora qualcuno sul suolo natio. Al di là di tutte le chiome bionde e le lattine di birra vuote, a domandarsi effettivamente le motivazioni di un tale esodo è stato il Ministero degli Affari Interni del governo australiano, come già accennato meta prediletta di un gran numero di gap-takers.

Dai dati 2017 del Dipartimento di Immigrazione e Protezione delle Frontiere emerge difatti che circa il 40% degli attuali Working Holiday Makers (WHM) sarebbe costituito da cittadini britannici (60.000), tedeschi (33.000) e coreani (33.000). La quantità di giovani appartenenti a tale gruppo di Paesi che si trova attualmente sul territorio australiano risulta assai sproporzionata se comparata con la loro popolazione totale (che rappresenta circa il 2.6% della popolazione globale) e con quella di altre nazioni maggiormente popolose come Cina, Indonesia e USA, che rappresentano quasi il 30% della popolazione mondiale ma che incidono solamente per l’8% in termini di WHM.

Le motivazioni di tale sproporzione vanno ricercate all’interno delle leggi sulla mobilità giovanile e nelle prospettive socio-culturali dei Paesi di provenienza. A tal proposito in Paesi come Regno Unito e Germania, dove il gap year pre-universitario risulta ampiamente accettato da un punto di vista sociale, sono assai numerose le risorse e le possibilità di agevolare un’esperienza di questo tipo. Al contrario, la go-go-go culture statunitense impone particolare pressione sui giovani nell’intraprendere i classici step dettati dalla società e la decisione di dedicare un periodo della propria vita al viaggio e/o ad altre attività viene spesso interpretata come una scelta pigra, irresponsabile e percepita negativamente dal resto della comunità.

Ancor più concretamente, sicurezza finanziaria e possibilità economiche incidono particolarmente in tale squilibrio. Sulla base dei dati del Global Youth Wellbeing Index – rapporto promosso dal Centro per gli Studi Strategici e Internazionali e dall’International Youth Foundation – i tre Paesi che svettano nella classifica australiana si distinguono particolarmente anche in termini di prospettive socio-economiche giovanili. I millennials britannici, coreani e tedeschi proverrebbero difatti da un contesto economico nazionale solido, sulla base del quale sarebbero propensi a intraprendere un gap year con maggiore serenità, consapevoli di ritrovare le medesime opportunità al loro rientro. Al contrario i giovani cinesi o indonesiani, entrambi appartenenti a Paesi che si collocano sul fondo della classifica, vedono le loro possibilità ridursi a causa di una maggiore incertezza del contesto nazionale futuro, soprattutto a causa di un inasprimento delle opportunità economiche giovanili.

Con particolare riferimento al contesto britannico poi, molto spesso sono le stesse istituzioni accademiche a incoraggiare i giovani diplomati inglesi a optare per un gap year prima di intraprendere la carriera accademica. Al di là della possibilità di lasciare il Paese per viaggiare, lavorare o partecipare a programmi di volontariato internazionale, molte università britanniche mettono loro stesse a disposizione programmi per gappers, britannici e non, offrendo l’opportunità di frequentare corsi a scelta anche a chi sta viaggiando o a chi si trova momentaneamente in Inghilterra.

Per dare un’ulteriore idea di quanto tale realtà sia radicata all’interno della cultura britannica, basti pensare che la maggior parte delle università offre la possibilità di immatricolarsi a un corso di laurea durante l’ultimo anno degli studi superiori e “congelare” il proprio posto fino al termine del proprio gap year, iniziando quindi gli studi in maniera regolare all’inizio dell’anno accademico successivo.

Ma, al di là delle possibilità economiche e sociali di cui dispongono i ragazzi inglesi e tedeschi, il principale focus risiede nel valore intrinseco che viene assegnato all’esperienza: contrariamente al pensiero comune, che vede lo spettro di una vacanza a lungo termine dietro a una scelta di questo tipo, solamente una piccola parte dei ragazzi dedica tale periodo al mero viaggiare. La maggior parte di essi sfrutta invece tale possibilità per prendere parte a interships, programmi di volontariato o semplicemente per lavorare all’estero, magari proprio nell’ottica di mettere da parte qualche risparmio per i propri studi futuri, ritrovandosi così a dover gestire la propria persona e le proprie finanze all’interno di un contesto estraneo e non sempre accomodante. Si tratta insomma di farsi le spalle grosse per quel che verrà in seguito e di sviluppare tutte quelle skills della vita reale (come capacità di relazionarsi con altre persone, abilità nel risolvere problematiche e una maggiore flessibilità mentale) che torneranno utili anche nell’ambiente universitario e in quello lavorativo.

Sebbene non incida che relativamente sul valore dell’esperienza, l’unico dato negativo che emerge dalle analisi statistiche riguarderebbe una leggera discrepanza negli stipendi di chi ha optato per un gap year (o years) e chi invece ha intrapreso direttamente gli studi universitari al termine del proprio ciclo di istruzione superiore: nella fascia di età compresa tra i 30 e i 34 anni, gli stipendi di questi ultimi risulterebbero difatti leggermente più redditizi rispetto ai guadagni mensili della prima categoria di individui. Nella realtà dei fatti è lo stesso Ministero dell’Istruzione britannico ad affermare che tale discrepanza deriverebbe semplicemente dal fatto che i gap-takers si sarebbero affacciati al mondo del lavoro con uno o due anni di “ritardo”, necessitando di conseguenza di qualche anno in più per maturare eventuali premi lavorativi.

Il caso di Israele

Come spesso accade, anche all’interno di un contesto di questo tipo Israele si distingue per la sua singolarità. Se difatti a livello europeo il gap year risulta socialmente riconosciuto e incoraggiato, a livello israeliano identifica una vera e propria pratica normativamente riconosciuta. Ai giovani israeliani viene dunque concesso di trascorrere all’estero un periodo più o meno lungo una volta conclusi i 2 anni di servizio militare obbligatorio.

Contemporaneamente, lo Stato di Israele è diventato esso stesso una delle destinazioni più ambite per i giovani ebrei di tutto il mondo grazie all’istituzionalizzazione del Masa Israel Journey Gap Year, un programma educativo creato dal governo israeliano e dall’Agenzia Ebraica per Israele nel 2004. Il programma seleziona ogni anno 20.000 giovani ebrei particolarmente meritevoli, offrendo loro una serie di borse di studio e la possibilità di vivere un’esperienza istruttiva e formativa d’eccellenza per un periodo che varia dai 2 ai 12 mesi.

Anche in questo caso risulta impossibile non notare la lungimiranza e l’efficienza dello Stato israeliano.

Il circolo vizioso italiano

E infine arriviamo noi. Sebbene nel corso degli anni si sia spesso parlato di una fuga di cervelli e di giovani scappati all’estero in cerca di maggiori prospettive economiche, statisticamente parlando il numero di ragazzi italiani che hanno deciso di impegnarsi in un gap year è inconsistente se paragonato alle medie globali. Rappresentiamo difatti una delle nazioni che guarda con maggior sospetto i giovani che abbracciano tale decisione.

La motivazione principale di una tale diffidenza risiede però nella confusione che la società italiana fa delle esperienze intraprese dai propri giovani. A livello terminologico, un gap year identifica:

“a year’s break, aimed at promoting a mature outlook with which to absorb the benefits of higher education. It also indicates a break before entry into graduate school. Activities range across advanced academic courses, extra-academic courses and non-academic courses, such as pre-college math courses, language studies, learning a trade, art studies, volunteer work, travel, internships, sports, cultural exchanges and more”.

La società italiana confonde quindi la decisione di dedicare a tali attività un periodo intermedio e circoscritto tra il termine delle scuole superiori e l’inizio degli studi universitari con la decisione di molti giovani di lasciare il Paese in cerca di fortuna. Il profilo di coloro che partono per Londra, Barcellona o Sidney senza particolari aspettative e in una prospettiva temporale indefinita non rientra difatti nella definizione di gappers, ma identifica persone prive di aspirazioni accademiche che faticano a inserirsi all’interno del mondo lavorativo a livello nazionale. Molto spesso, perciò, i due profili si sovrappongono generando disorientamento.

A complicare ulteriormente il quadro concorrono poi le persistenti barriere linguistiche che contraddistinguono il popolo italiano e un impianto scolastico/accademico che lascia poco spazio a deviazioni dal percorso standard. Nulla togliendo all’eccellente qualità dell’istruzione italiana, i ragazzi che intendono continuare gli studi a livello universitario molto spesso vengono sollecitati a intraprendere il processo di candidatura e immatricolazione durante il quarto o l’ultimo anno di scuola superiore, riducendo il ventaglio delle possibilità di scelta una volta terminati gli esami di maturità.

Allo stesso tempo, il sistema universitario italiano si distingue per il suo preponderante impianto teorico, a discapito di attività e competenze pratiche e relazionali, motivazione per la quale al termine del percorso universitario gli studenti italiani possiedono elevate competenze tecniche ma mancano quasi totalmente di abilità e skills relazionali che non hanno potuto sviluppare altrove.

Sebbene a livello analitico le ricerche italiane mostrino un incremento esponenziale di ragazzi che decidono di vivere esperienze di studio o di lavoro all’estero – tra i più gettonati vi sono corsi di lingua intensivi ed esperienze Erasmus Plus – tali programmi non rientrano comunque nell’accezione “anglosassone” del termine, rivelando invece una perdurante stagnazione del fenomeno.

Evidenze empiriche

Dove invece il trend risulterebbe in effettivo aumento sarebbero gli USA. A rivelarlo sono difatti i dati dell’American Gap Association National Alumni che evidenziano una maggiore apertura sociale e culturale verso il fenomeno, specialmente dopo l’emergere del cosiddetto “effetto Malia” ovvero la decisione da parte della famiglia Obama di “concedere” un gap year alla primogenita Malia prima di avviare i suoi studi universitari ad Harvard.

Sempre all’interno dello stesso rapporto l’associazione americana evidenzia, sulla base delle ricerche empiriche e dei sondaggi condotti dall’Istituto di ricerca della Temple University di Philadelphia, come influiscano profondamente le caratteristiche e i background familiari degli studenti americani che hanno intrapreso un gap year. Tra i dati più significativi emerge come abbia inciso il livello di educazione dei genitori: in circa l’80% dei casi, almeno uno dei due genitori possedeva difatti una laurea triennale o aveva completato un percorso di studi universitari.

Tenendo quindi in considerazione il costante incremento del numero di laureati negli Stati Uniti, le previsioni lascerebbero presagire un relativo aumento anche nel numero di gappers nel corso dei prossimi anni.

Un dato curioso, questa volta in contrasto con gli andamenti globali, mostra invece come la prima destinazione dei gappers americani sia stata all’interno dello Stato americano, confermando la tendenza dei giovani statunitensi a non lasciare il Paese ma a spostarsi all’interno di esso.

 


 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.