Storie all’infinto: Vite che sono la tua

In Italia, sei persone su dieci non leggono un libro all’anno.

L’affermazione è apocalittica e seguono appelli all’altezza. Qualcosa come un richiamo alle armi.
I blog si affollano di liste: cento  libri da leggere assolutamente nella vita, o almeno cinquanta, o venti, ma anche dieci va bene, no? E quanti gli articoli che allineano motivi convincenti sul benessere psicofisico per cui è assolutamente necessario leggere? Non si contano più le crociate a favore dei libri, o dei giornali e della cultura tutta. E non pochi di questi appelli, e non di rado, cedono a punte retoriche: “I classici che possono cambiare il mondo”. E giù una valanga di libri, molti mai letti fino in fondo, ma inamovibili dalle pose assunte in classifica.

A dire il vero, non credo che Vite che sono la tua, il libro di Paolo di Paolo, abbia molto a che fare con queste prescrizioni mediche. Nasce sotto il segno contrario: al diavolo la retorica!

Di Paolo corregge il tiro: i libri non offrono istruzioni per l’uso, e se lo fanno, ci stanno suggerendo quelle sbagliate. Dostoevskij non ci farà innamorare della persona giusta, tutt’altro. I libri ci rendono oltremodo sensibili, e questo non sempre è un bene.
E non allungano neanche la vita: per quello risultano più funzionali le diete che eliminano la carne rossa.

È bello che qualcuno ci dica le cose come stanno. È bello il modo in cui lo fa Paolo di Paolo, che non si arresta a diffidare dalle varie campagne di promozione. Perché è ora che arriva il bello, con la sfida, con la pars costruens.

“Se un romanzo funziona, funziona come un viaggio. Un viaggio ci rende migliori o peggiori? Nessuna delle due cose. Diversi, di sicuro, da quando eravamo partiti. […] A volte, da un libro, riporti con te anche solo una frase. Un’intuizione. Una cosa che ignoravi. Un’altra che ignoravi di ignorare. […] Altre volte una storia che somiglia alla tua. Una storia che avresti voluto somigliasse alla tua. Una storia che ha ancora il tempo di somigliare alla tua”

Il libro non è un bene di lusso e non è elitario e non è aristocratico. Ecco, forse questa è l’unica convinzione che ci può avvicinare sul serio alla lettura: il percorso di lettore e quello di uomo hanno diversi appuntamenti in comune.

Paolo di Paolo sceglie ventisette storie, perché ventisette sono i suoi anni di lettore. Quello che ne viene fuori non è un canone estetico, questo è chiaro. È un canone sentimentale, questo lo dice lui.
È l’unico modo che un lettore ha per ritrovarsi: scegliere quei libri che sono stati appuntamenti importanti con la vita, con il proprio io. Scegliere quei libri che hanno scandito il tempo.
Come scorrere gli album fotografici -che oggi non sono più quadernoni di pelle marrone- e rivedersi, al quindicesimo compleanno, con il detestato apparecchio ai denti. Come riprendere in mano i diari degli anni liceali e leggere le dediche del compagno di banco di quegli anni.

Riprendo un libro dagli scaffali, lo sfoglio, vado alle sottolineature, alle pagine piegate, ai nomi che ho scritto… anche quella è casa: la me stessa di qualche anno fa.

Man Reading Book and Sitting on Bookshelf in Library — Image by © Royalty-Free/Corbis

Ventisette capitoli, quindi, ventisette storie e ognuno ha per titolo un verbo all’infinito: un appuntamento esistenziale, questo sono quei libri, questo sono libri.

La copertina del libro è bianca; sotto il titolo Vite che sono la tua, in stampatello nero, Il bello dei romanzi in 27 storie. Ecco il senso: avvicinare su uno stesso spazio -bianco- la vita nostra e le storie non -solo- nostre. Un titolo così, ha capito già tutto!

Ora che so cos’è questo libro posso dire che l’intento è nobile e non nobilitante. E ora, poco riesco ad aggiungere, io che di anni ne ho meno di 27, e ancora meno sono quelli da lettrice.

Uno slancio d’amore è la prima cosa che mi è sembrato questo libro. Una confessione calda, amichevole.

I libri aiutano, sì, e di questo Paolo di Paolo ne è certo. La lettura “aiuta a non smettere di farsi domande, alimenta l’inquietudine che ci tiene vivi, permette di non vivere solo il proprio tempo e la propria storia, offre quindi la possibilità di non essere solo sé stessi, rende più intenso il vissuto, e forse più misterioso il vivibile”.
C’è un sesto motivo: ma è lacunoso, è un rigo ancora bianco, “una casella vuota da riempire”. Ora, a te la parola!


 

FONTI

Paolo di Paolo, Vite che sono la tua. Il bello dei romanzi in 27 storie, Roma-Bari, Laterza, 2017


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