Inchiesta Russiagate, tra indagini e complottismo

Nel bel mezzo delle elezioni di metà mandato su Trump continua ad aleggiare lo spettro del Russiagate, un’indagine parlamentare che lo minaccia da vicino, fin dall’inizio del suo incarico di Presidente. “-gate” del resto è più o meno il corrispettivo statunitense dell’italiano “-poli”, quello che viene usato da noi nel caso di inchieste clamorose come Tangentopoli, Calciopoli, ecc. E nelle speranze dell’intellighenzia giudiziario-giornalistica dovrebbe promuovere proprio uno sconvolgimento simile a quello che causarono scandali come il Watergate, che vide un presidente americano piegarsi al nuovo potere dei media di massa, e Tangentopoli, che significò per l’Italia la liquidazione per via giudiziaria di un intero sistema politico. Non a caso alcuni commentatori e politici democratici in America sono arrivati ad evocare la possibilità di un impeachment.

Tutto è partito dalla grave accusa che il Partito Democratico ha ripetutamente rivolto a Trump nel corso della campagna elettorale, l’accusa di tramare con il nemico russo. A questa, come ulteriore detonatore, si è sommato il nuovo spauracchio delle fake news, manovrate da oscuri poteri occulti, strumento nelle mani di entità straniere per alterare i processi democratici. Se non si è arrivati ad un clima da Protocolli dei Savi di Sion, riuscendo a non sembrare in preda a una psicosi generalizzata, è stato proprio grazie al Russiagate, che ha dato il crisma dell’ufficialità a quelle che sembravano (maldestre) campagne mediatiche e politiche.

Oggi il Russiagate è una faccenda terribilmente seria, che mette in serio pericolo la stessa presidenza Trump, con lo spettro addirittura della messa in stato d’accusa e dell’impeachment. Del resto già alcune importanti teste dell’inner circle trumpiano sono cadute sotto i colpi del Russiagate. Paul Manafort, la mente della campagna elettorale di Trump, è finito agli arresti domiciliari, accusato di contatti sospetti con agenti dei servizi segreti russi e di frodi finanziarie che avrebbero coperto finanziamenti elettorali di dubbia provenienza. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Flynn, ha dovuto ammettere di aver mentito all’FBI sui suoi rapporti con personalità del mondo russo. Inoltre, in una spirale che sembra lambire sempre più da vicino il presidente USA, anche l’avvocato personale di Trump, Michael Cohen, è stato costretto a dichiararsi colpevole di frode fiscale. Le indagini, poi, ultimamente si stanno concentrando perfino su Jared Kushner, genero di Trump e suo influente consigliere, eminenza grigia per quanto riguarda la (sciagurata) politica estera americana in Medio Oriente. In più continua ad aleggiare il grave sospetto che la cacciata dell’ex direttore dell’FBI sia stata motivata politicamente, come un estremo tentativo da parte del Presidente di far deragliare le indagini sul Russiagate.

Si sono invece abbastanza presto rivelate prive di una reale rilevanza politico-giudiziaria le variegate accuse ad hacker russi al soldo del Cremlino e lo spettro di bot utilizzati per alterare ora il clima delle elezioni americane, ora il referendum sulla Brexit, ora la nomina del Governo italiano. I mass media sono nati, esistono e hanno come missione principale condurre battaglie di opinione, che sono sempre politiche anche quando non lo si dichiara o (peggio ancora) non se ne è consci a livello giornalistico, editoriale o politico. Stupirsi che anche questa logica governi i nuovi social media, e le concentrazioni di potere che ci sono dietro, è forse più preoccupante della possibilità che Stati stranieri possano alterare certi sentimenti collettivi con quello che in realtà non è altro che semplice dark marketing, hacking prestato a finalità di marketing. Del resto certe ONG, anche e soprattutto per mezzo di Internet, fanno campagne di colonizzazione ideologica in mezzo mondo, ma nessuno trova tali attività di queste autoproclamate entità sovra-governative inappropriate o pensa (non a torto) che siano espressione di precise agende quantomeno culturali se non politiche.

Così, mentre il Russiagate fa il suo corso, tatticamente lento per incrociarsi in maniera opportuna con le elezioni di metà mandato, una domanda tutt’altro che irrilevante resta inevasa: perché la Russia dovrebbe essere un nemico? Ironicamente Barack Obama, che aveva iniziato il suo mandato presidenziale insignito del Premio Nobel per la Pace, e Hillary Clinton, che veniva acclamata come la grande speranza per un mondo più equo, nonostante la loro retorica (anzi per la loro retorica), sono riusciti a consegnare il mondo a una nuova Guerra Fredda, disintegrando intere aree geografiche come il Medio Oriente e l’Est Europa. Se il Russiagate permettesse di prendere coscienza di queste disgraziate dinamiche di costruzione del nemico sarebbe probabilmente il suo più grande successo.

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