Prima l’uovo o la gallina? La risposta dell’uomo fu la frittata

Medu netjer era il termine con cui gli Egizi si riferivano al proprio sistema di scrittura. Significa “parola sacra”.
Eppure gli ideogrammi geroglifici ritraggono elementi del quotidiano. Viene dunque spontaneo domandarsi quale fosse il requisito richiesto dagli Egizi perché qualcosa potesse qualificarsi come sacro. Semplicemente: esistere. Questo è, dopotutto, il principio della dignità. Essa consiste nella nobiltà ontologica instrinseca a ogni elemento in quanto esistente. Un concetto che, nel corso dei secoli, non ha conservato la limpidezza di cui godeva presso gli antichi.

È infatti la dignità umana il leitmotiv che, attraverso i secoli, cadenza uno spettro di variazioni sul tema miranti a difendere – attraverso le norme di comportamento e le leggi positive – la comunità umana in quanto categoria privilegiata. Anche, e soprattutto, in ragione della religione, il pensiero teistico ha rivendicato lo status dell’uomo quale dominatore del creato. È difficile, se non impossibile, calcare i sentieri della filosofia senza incappare nelle orme di Immanuel Kant. Il pensiero pratico del filosofo prussiano – viziato dalla Patristica, dalla quale mutuò elementi fondamentali – individuò nella moralità umana due condizioni determinanti: lo sviluppo della razionalità (quindi del libero arbitrio, cioè la facoltà di indirizzare pensiero e azione a proprio talento) e la convivenza sociale. In uno dei passaggi più celebri e complessi della Critica della ragion pratica, le massime dell’imperativo categorico regolamentano la morale a priori. La seconda massima prescrive

“Agisci sempre in modo tale da trattare l’uomo, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine e mai come semplice mezzo.”

Esempio lampante di come una singola sentenza (costruita sul gusto, caro all’Illuminismo, per le frasi a effetto) riesca a condensare la norma da osservare nel rispetto della dignità propria dell’uomo; quest’ultimo il denominatore comune della morale aprioristica di derivazione divina, secondo il pensiero religioso, ora invece dedotta dalla ragione, per il kantismo. Tuttavia, nel corso del XIX secolo, le ricerche pionieristiche di uno scienziato autodidatta avrebbero messo in discussione l’una e l’altra posizione.

Con la pubblicazione de L’origine della specie (1859), atto inaugurale della teoria evoluzionista, Charles Darwin ridisegnò la storia umana sotto ogni profilo. Ma fu con le opere L’origine dell’uomo e la selezione sessuale e L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (pubblicate nel 1871 e nel 1872) che il naturalista inglese intraprese un percorso rischioso. Se può apparire sorprendente il favore con cui la comunità scientifica accolse le teorie darwiniane, non lo è invece il biasimo sociale dal quale furono investite. Dopotutto, l’evoluzionismo minava un collettivo di pensiero fondato sull’assunto della razionalità come attributo esclusivamente umano. Tentare di dimostrare la derivazione degli uomini e delle scimmie antropoidi da un ceppo comune chiamava inevitabilmente in causa le implicazioni dell’evoluzione non soltanto sul versante fisiologico, ma soprattutto sulla sfera razionale ed emotiva: affermare che animali e umani ragionano e sentono pressappoco allo stesso modo, e che la ragione evolve secondo un percorso graduale, equivale a identificare nel regno animale uno stadio di razionalità potenziale, col risultato della detronizzazione dell’essere umano dal suo posto d’onore nel creato.

Non è facile stabilire in che misura Darwin abbia progettato un simile schiaffo morale o se, piuttosto, sia stato un effetto preterintenzionale delle sue ricerche. La teoria darwinista ridimensionò ogni privilegio attribuito fin allora al genere umano sulla base di ragioni tutt’altro che scientifiche; una di queste fu la convinzione (sottoscritta da Cartesio nel XVII secolo) che gli animali non fossero in grado di provare sensazioni fisiche ed emotive. Si tratta di un non raro caso in cui l’obsolescenza risulta comoda per salvarsi dall’imbarazzo di una contraddizione con la modernità: il nome della scienza, oggi come un tempo, eclissa talora la dichiarata noncuranza per la vita di un animale a favore del progresso umano. Idee di questa matrice legittimano tutt’oggi pratiche come la vivisezione e l’utilizzo di animali da laboratorio (come per il test di irritazione oculare, o test di Draize, sperimentato principalmente sui conigli).

Ricorrono nel quotidiano testimonianze della degenerazione dello specismo (termine coniato da Richard Ryder) in un fenomeno di fuoco amico: razzismo e sessismo rappresentano forme di pregiudizio incondizionato che hanno reso più complesso il discorso sulla dignità umana, enfatizzando l’appartenenza a precise categorie (nella fattispecie, etnia e genere) come marcatore necessario e sufficiente per decretare giudizi di valore discriminatori. Una morale coerente col darwinismo – ovvero basata su un modello avulso dalla tesi della superiorità umana – viene definita individualismo morale. Quest’ultimo presuppone la necessità di un trattamento differenziato.
Un atteggiamento mentale di inerzia generalizzata, ormai aduso a rifiutare meccanicamente qualsiasi ideologia che attacchi il concetto di uguaglianza, potrebbe accusare l’individualismo morale di fare altrettanto. Ma un’analisi niente affatto impegnativa ne comprende il vero scopo, ossia rilevare – in nome dell’equità (non dell’uguaglianza) – condizioni ineccepibili che giustifichino una differenza di trattamento. Basta pensare a un paio di esempi che potrebbero incontrarsi nel quotidiano. Un medico che prescrivesse a ogni paziente la stessa cura, indifferentemente dal problema di salute, non sarebbe giusto, bensì incompetente; parimenti si direbbe di un datore di lavoro che pretendesse la medesima prestazione da un dipendente normodotato e da uno disabile. Altrettanto irrisorio sarebbe ammaestrare un animale, o tuttalpiù trattarlo come un essere umano a tutti gli effetti (oltre il danno, la beffa).

Darwin si trovò in disaccordo con Kant in quanto non ritenne l’uomo unica creatura razionale né tantomeno che fosse stato creato a immagine di Dio. Sarebbe un controsenso se l’evoluzionismo stesso non obbedisse agli schemi dell’evoluzione. Caratteristica del pensiero di Darwin fu infatti quella di non collidere in maniera traumatica con l’ideologia vigente, ma di eroderne, quasi silenziosamente, la struttura dall’interno. Lo sgretolamento, non la detonazione, della teoria dominante è quindi l’obiettivo, ancora lontano dall’attuarsi, del darwinismo. Per quanto si possa, a ragion veduta, considerare l’evoluzionismo come rivale del teismo, la posizione di Darwin nei confronti della morale è a metà strada fra kantismo e utilitarismo: un comportamento morale deve porsi come prioritario il benessere generale – fine per il quale è fondamentale avere coscienza dei propri doveri (elemento di chiara ascendenza kantiana). Quella del dovere è una categoria morale altrettanto delicata e complessa. Quello che per Darwin poté essere un auspicio è oggi un’urgenza. Il mondo vive una fase di passaggio lacerante: le mire assolutistiche del fondamentalismo e del nazionalismo reprimono l’emergenza dell’intercultura, nella falsa consapevolezza d’esser nati dalla parte giusta del mondo, della natura, tuttalpiù della specie umana. Non meno difficoltosa – in un paese fondato su un regime alimentare prevalentemente carneo – l’affermazione di posizioni come il veganesimo e l’animalismo. Il contesto sociale odierno richiede una definitiva presa di coscienza dell’infondatezza della superiorità umana e dell’appartenenza a una comunità globale, lasciando che ogni dottrina sulla dignità umana decada parallelamente a un autentico progresso scientifico e intellettuale.

FONTI
B. Farrington – Che cosa ha veramente detto Darwin, Ubaldini Editore, 1967
M. Piattelli Palmarini – Ritrattino di Kant a uso di mio figlio, Mondadori, 1993
J. Rachels – Creati dagli animali, Einaudi, 1996
C. Darwin – L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Bollati Boringhieri, 2012

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