Thomas Jefferson: la storia di un pensiero politico

 

Thomas Jefferson è il terzo Presidente degli Stati Uniti di America, eletto nel 1801. Ecco come noi tutti lo conosciamo, come un politico. Eppure è stato anche un pensatore rivoluzionario. Fu tra i primi pensatori a intendere infatti un’idea nuova di felicità, intesa come concetto politico, come diritto. Insieme a John Adams, Benjamin Franklin, Robert Livingstone e Roger Sherman, compone la Commissione dei cinque, col fine di redigere la “Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America”. Ed è nella stessa “Dichiarazione”, avverte Luca Scuccimarra, che la cura della vita e della felicità umana coincide con l’assetto politico-costituzionale.

“Quando, nel corso degli eventi umani, diviene necessario per un popolo rescindere i legami politici che lo legavano ad un altro, ed assumere tra le Potenze della Terra la posizione separata ed eguale alla quale le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno titolo, un giusto rispetto delle opinioni dell’Umanità richiede che essi manifestino le cause che li costringono alla separazione.

Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà ed il Perseguimento della Felicità.”

 Quanto appena citato è l’incipit della “Dichiarazione”, e sottende la proclamazione del diritto alla ricerca della felicità, un diritto elencato tra quelle che sono definite essere “verità di per se stesse evidenti”. Una nozione di verità che qui non si intende alla stregua di una rivelazione o manifestazione nelle forme empiristiche o metafisiche. In questo contento la verità è intesa come “coerenza”, connessa con le forme empiriche, di razionalità e il senso insito nel concetto di umanità pratica. È un pensiero questo che si trasforma in vita pratica, che vuole comprendere lo stile di vita all’interno della comunità politica, sottoposta ora ad una vera e propria “rifondazione politica”. Ma come nota lo stesso Rossiter, è un principio quelle delle “verità di per se stesse evidenti” ha accompagnato tutto lo sviluppo politico americano. Un sistema prettamente conservatore, i cui stessi principi si fondano sulla conservazione dell’ordine, della libertà e della giustizia, garanzie necessarie per il perseguimento della felicità. È un principio quindi che sancisce l’idea di continuità: conservatorismo (Rossiter).

È un conservatorismo che guarda ai tentativi di unificazione politica e che coniuga le compenetrazioni delle diverse idealità che legano il conservatorismo e il progressismo tra il valore dei principi e l’inevitabile mutare delle situazioni. Sempre secondo Rossiter, Jefferson è un “progressista”: le sue idee poggiano su un piano che privilegia il sociale; e “non-conformista” volendo porre in primo piano la ricerca delle verità di per se stesse evidenti dinanzi a situazioni che determinano in virtù di un “principio superiore” rispetto al quale anche la legge positiva deve conformarsi.

Jefferson si interesse del sociale, e a prova di ciò vi sono i suoi numerosi scritti. È il periodo parigino quello a cui dobbiamo fare riferimento: 1784-1786, periodo in cui è ambasciatore in Francia. Sono gli anni in cui il politico riflette sull’individuo, anni che Graziani definisce per mezzo delle parole della Arendt e di Hugo.

Quando gli uomini della rivoluzione americana vennero in Francia e si trovarono di fronte alle condizioni sociali del continente, a quelle dei poveri come a quella dei ricchi, il loro primo sguardo ricadde sugli accidenti della gerarchia sociale, che per secoli avevano minato il terreno delle libertà.

 La Francia muore nella povertà, la cui causa è da ascriversi ad una condotta sbagliata governata da manners sui cui pesa la miseria e la corruzione. Il popolo francese è ignorante, superstizioso, povero e vive nell’oppressione. Ma è proprio questa povertà che spinge gli uomini a spezzare i ceppi dell’oppressione.  La miseria, però, non è esclusivamente europea, tocca anche l’America nelle forme di schiavitù. Fenomeno di cui Jefferson è consapevole, ma che non può battere; pur richiedendo misure in favore degli schiavi.

Volendo ora analizzare il concetto di felicità proposto da Jefferson, si dovrebbe prima fare riferimento a quelli che sono i principi fondamentali che concorrono a formare la filosofia politica jeffersoniana, quali: efficienza, onestà, senso morale. Per Jefferson, la garanzia per la ricerca della felicità deriva dall’esercizio dell’azione politica posta in essere grazie alle istituzioni. Auspicando così  un decentramento delle istituzioni politica e ad una maggior rilevanza delle comunità locali. In questo modo sarebbe stato favorito il senso dell’obbligazione politica legata al sentimento dell’onestà politica. Come scrisse Jefferson:

Tutta l’arte di governo consiste nell’essere onesti

 Il fine di ogni azione è così quello di compiere il proprio dovere, senza mai violare le libertà dei cittadini. È un sistema politico basato sull’equilibrio, frutto dell’armonia delle forze e del senso di unità; elementi essenziali per garantire un futuro e la libertà.

L’America è stata conquistata e i suoi insediamenti sono stati formati e saldamente consolidati, a spese dei singoli individui, e non del pubblico britannico

 Sono queste le parole che usa per definire il secondo principio: l’efficienza. E allo stesso tempo, Jefferson afferma il superamento dello stato di natura lockiano, nel senso che gli individui hanno già superato gli inconvenienti che necessariamente conseguono dal fatto che ognuno è giudice del proprio caso.

Sono uomini sottomessi ai domini britannici, che non hanno respinto leggi dai propositi più salutari. Ciò che anima Jefferson è così il desiderio di custodire e garantire quei diritti schiacciati da leggi che hanno impedito la realizzazione di progetti politici. è un vero e proprio impegno morale verso chi soggiaceva alla schiavitù domestica. Il suo proposito diviene così quello di riconsegnare agli uomini la propria libertà naturale di poter andare alla ricerca di nuove dimore e di stabilirvi nuove società, sotto l’impero di leggi che a loro giudizio possano meglio promuovere la felicità. Le leggi naturali finiscono con il governare il mondo attraverso l’uso della ragione, divenendo però strumenti del potere politico. Nella prospettiva politica jeffersoniana assume rilievo il carattere etico delle azioni politiche, espressione di una ferma determinazione e impegno politico: i postulati di natura etica precedono quelli di natura giuridica. È un pensiero che si afferma anche nella concezione della “pursuit of happiness”.

Come ricorda la Eckardt: la felicità, per Jefferson (così come per Aristotele) risiede nelle facoltà umane, nell’adempimento dei propri doveri e nel custodire le condizioni che permettono la realizzazione del perseguimento della felicità attraverso le azioni. Centrale ritorna ad essere la ragione, che si manifesta attraverso l’esercizio della virtù. È una felicità che non esclude i “pleasures of life”, ma crea le distanze dai “fleeting pleasures”. È una felicità che non è durevole, ma non dipende dalle chances della vita. È infatti il risultato di una buona coscienza, buona salute, occupazione e libertà.

Esistono delle condizioni minime per essere felici, come: regolare la propria condotta e salvaguardare la propria vita. Ciò implica la necessaria introduzione di regole, come il diritto alla vita, implicante il diritto alla sopravvivenza; condizione fondamentale per il diritto alla felicità. La felicità deve divenire così un’opzione aperta tutti. Regalando al “pursuit of happiness” un triplice significato: quello di natura filosofica, quello di natura giuridica e infine quello di natura sociale, precondizione dei primi due.

La ricerca della felicità è così legata a tre verità fondamentali: comune connessione tra giustizia e felicità umana, ruolo dell’obbedienza ai precetti paterni e azioni reali per il perseguimento della reale felicità in conformità della Legge naturale. Il rispetto della giustizia consente il pursuit of  happiness terrena, ma da ciò deriva il rapporto comando-obbedienza che rimanda ai principi legalistici che aprono la discussione intorno al ruolo dell’obbedienza al precetto paterno che legittima il perseguimento della felicità. Perseguimento che Jefferson traccia all’interno di un disegno provvidenziale in cui il vested right trova fondamentale nel diritto naturale e nei principi del patto sociale. La temuta insufficienza di questi elementi avvalora il ruolo dell’azione, di tutte quelle azioni reali il cui fine non è il generico ben comune ma il bene inteso come felicità dei singoli componenti della comunità.

Il primo e il solo legittimo obiettivo del buon governo diviene così la cura della vita e della felicità umana.

Fonti:

“Giudice del Proprio Benessere. Happiness and wretchedness:Thomas Jefferson, David Walker” di Graziani (Edizione del 2015)

 

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