Musica(L)mente: l’impatto della musica nella crescita e nello sviluppo cognitivo

La musica ha un ruolo nello sviluppo di mente e cervello? Questa è una domanda che si sono posti moltissimi studiosi, fornendo risposte differenti ed estremamente interessanti.

Innanzitutto, si è appurato che l’ascolto e la produzione musicale coinvolgono quasi tutte le regioni del cervello che conosciamo, e quasi tutti i sottosistemi neurali: questo perché la nostra mente compie una “segregazione formale”, scomponendo ogni elemento che compone il segnale musicale (timbro, ritmo, pitch, tempo…), che viene analizzato da un’area cerebrale specifica per poi riessere riunificato in un’unica rappresentazione formale.

Facciamo qualche esempio: Il solo ascolto della musica coinvolge le strutture subcorticali e la corteccia uditiva; se stiamo ascoltando un genere musicale che conosciamo, la nostra mente si attiverà per riconoscerne le caratteristiche, tramite l’ippocampo (sede della memoria), e la corteccia frontale inferiore; se battiamo il piede a tempo si attivano dei circuiti presenti nel cervelletto, mentre per ricordare le parole di una canzone coinvolgiamo i centri del linguaggio ed altri centri del lobo frontale e temporale. Quando suoniamo o cantiamo qualcosa i lobi frontali elaborano il nostro comportamento, la corteccia motoria attiva i movimenti e quella sensoriale fornisce il feedback tattile di aver realizzato il giusto movimento sullo strumento. Quanto poi alle emozioni che ci suscita un certo pezzo, le aree che rispondono sono il verme cerebellare e l’amigdala, sede della memoria emotiva.

Proprio grazie a questo sorprendente impiego del cervello gli scienziati ipotizzano che la musica abbia contribuito allo sviluppo cognitivo: basta pensare a come un batterista sviluppi ottime capacità di coordinazione, o come un violinista sappia controllare complessi movimenti. Una delle ipotesi più accreditate è che la musica abbia preparato l’uomo a sviluppare il linguaggio, aiutandolo ad affinare abilità motorie sfociate nei complessi movimenti articolatori che si compiono quando si parla. Questa teoria è rafforzata da alcune prove: innanzitutto, come afferma il neuroscienziato e musicista Daniel J. Levitin, la musica “può essere stato un modo per ‘esercitare’ la percezione verbale in un diverso contesto”, ovvero, in parole semplici, per fornire la flessibilità mentale. Ad esempio, è risaputo che i bambini non imparano ogni regola della propria lingua madre a memoria: può capitare che un bambino piccolo dica “io ho aprito la porta”, ricalcando sia la forma di altri participi come “uscito, vestito, sentito”, sia quella dell’infinito del verbo “aprire”. Ciò significa che per apprendere il linguaggio i bambini immagazzinano alcune informazioni, elaborando poi delle regole che applicheranno.

Sempre Levitin afferma:

“L’elaborazione della musica aiuta i bambini a prepararsi al linguaggio; può aprire la strada alla prosodia linguistica, prima che il cervello del bambino sia pronto a elaborare la fonetica. Per il cervello in via di sviluppo la musica è una specie di gioco, un esercizio che si appella a processi integrativi di più alto livello, i quali promuovono la competenza esplorativa, preparando il bambino a esplorare lo sviluppo del linguaggio generativo attraverso la lallazione (l’emissione di suoni tipica dei bambini che non sanno ancora parlare” e poi produzioni linguistiche e paralingulistiche più complesse.”

Si può dunque concludere che la musica contribuisca in maniera importante allo sviluppo cognitivo di un individuo; e per questo motivo, si spera che verrà sempre coltivata e tramandata come una delle più importanti esperienze umane.

 

FONTI

LibroDaniel J. Levitin, “Fatti di musica: la scienza di un’ossessione umana”

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