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Il senso delle parole: l’uso giuridico e l’abuso giornalistico

Poco altro colpisce l’immaginario dell’opinione pubblica come i casi di cronaca, ed è quindi comprensibile che i mass media li sfruttino abbondantemente per intercettare i gusti del proprio pubblico. La cronaca nera infatti ha un posto di rilievo non solo in televisione ma anche sulla carta stampata e perfino su nuovi mezzi di comunicazione online come i social network. Il linguaggio allora è inevitabile che di fronte a una platea tanto ampia e variegata si colori e si calchi di aspetti che in altri contesti apparirebbero fuori luogo o addirittura completamente inappropriati.

Lo si nota in modo particolare quando si confronta il lessico giuridico con certe degradazioni giornalistiche. La cronaca nera, del resto, è nella stragrande maggioranza dei casi cronaca giudiziaria: racconto di processi, inchieste, assoluzioni e condanne. Il mondo della legge però ha un proprio codice di riferimento non solo per quanto riguarda le norme, ma anche per quanto concerne le parole, che devono essere sempre estremamente calibrate, tecniche, sezionate al millesimo. Il giornalismo invece punta sulle emozioni e spesso sottovaluta – incredibilmente – quella che è la propria materia prima, la parola, o meglio, il senso delle parole. Senza nessuna riflessione e con scarsa auto-consapevolezza lascia che le parole abbiano vita propria, che l’uso sia l’unico criterio di valore, senza mai interrogarsi sul peso e sul significato di certe scelte. Un caso eclatante è rappresentato dai due termini pentito e perdono, che da tempo immemorabile popolano molta cronaca giudiziaria.

Pentito, dai tempi di Tommaso Buscetta e Giovanni Falcone, è il modo abituale con cui si designano a livello giornalistico quelli che in ambito giuridico, proprio a partire da quell’esperienza, verranno definiti collaboratori di giustizia: può sembrare un modo efficace, emozionale e poetico, per rendere più immediatamente fruibile un termine tecnico, ma raramente si riflette sul sostrato filosofico-religioso che sta dietro a una parola del genere. Da allora infatti il pentito nei mass media viene dipinto – talvolta inconsciamente, talvolta esplicitamente – come un criminale che, pentito appunto per i propri trascorsi criminali, vuole fare ammenda autodenunciandosi e mettendosi a collaborare con le autorità perché la giustizia finalmente trionfi. Il problema è che probabilmente nessun collaboratore di giustizia nei fatti corrisponderebbe a una simile descrizione. È difficile dire se qualche mafioso si sia mai consegnato spontaneamente alle autorità mosso dai sensi di colpa per le proprie passate azioni criminali: i collaboratori di giustizia infatti sono tendenzialmente criminali che, in cambio di sconti di pena e dietro garanzia di protezioni, decidono appunto di collaborare con la giustizia. In sé è per sé quindi dovrebbe essere totalmente esclusa questa connotazione morale, questo alone di conversione e rinascita spirituale che appare abbastanza fuori luogo: attiene a tutt’altra sfera, a un ambito nel quale lo Stato, oltretutto, non è chiamato ad entrare. Ma paradossalmente è proprio questo secondo aspetto filosofico-morale ad emergere con più forza dalla scelta giornalistica di abusare del termine pentito. Il pentimento è cosa difficile e complessa da quantificare, constatare e valutare: molte altre (e molto più attrattive) sono le dinamiche che spingono a collaborare ad inchieste, indagini e processi senza per forza dover scomodare questioni che attengono alla sfera personale dell’individuo, alla sua coscienza e moralità: un campo sempre difficile da sondare, e che – non bisogna mai dimenticarlo – non è l’obiettivo dei processi.

Analogamente fuori luogo è l’abuso giornalistico del concetto di perdono. Negli ultimi anni si è assistito a un imbarbarimento culturale dei giornalisti di cronaca, al punto che non si perde occasione, perfino subito dopo efferati delitti, stragi o tragedie, di chiedere senza un minimo di vergogna e pudore: “Perdonate?” È una domanda insensata, così formulata, che non ha nulla di religioso o morale, nonostante l’apparenza. Non è necessariamente un buon cristiano né un uomo pio o una persona estremamente morale chi perdona a cuor leggero: è forse semplicemente una persona disinteressata, apatica e senza cuore, proprio come i giornalisti che fanno simili domande. Secoli di riflessioni religiose e filosofiche sul perdono, sul rapporto tra giustizia e misericordia vengono umiliate da un giornalismo così grezzo e insensibile. Agostino, Lutero, Calvino – per restare nel solo ambito cristiano – inorridirebbero di fronte a una simile superficialità giornalistica, in cui a suo agio si potrebbe trovare al massimo la mediocrità intellettuale del Candido di Voltaire rispetto alle sublimi riflessioni di Leibniz.

L’emozionalità facile dei titoli in prima pagina non ha nulla a che vedere con i complessi processi della coscienza, con i dilemmi morali e le riflessioni filosofico-religiose che da sempre ci attanagliano riguardo al nostro agire nel mondo. Il primo passo per prenderne coscienza è riappropriarsi delle parole, del loro vero senso per sapersi descrivere e comprendere in verità. Stupisce che i professionisti della parola – i giornalisti – non riescano e non vogliano farlo.

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