Hijab: storie di diritti diversamente velati

La multiculturalità riveste un ruolo importante nel mondo contemporaneo, innescando processi più o meno complessi di integrazione. Si sollevano così interrogativi sempre nuovi, come quelli relativi al velo per le donne di religione musulmana: accettarlo o meno? Dar spazio ad usi e costumi nuovi accanto ai propri oppure proibire quello che spesso viene considerato simbolo di sottomissione della donna? Nel proporre risposte, Occidente e Medio Oriente talvolta condividono storie di diritti diversamente negati.

Occorre dire che, contrariamente a quanto spesso si pensa, quello del velo non è un obbligo esplicitamente imposto dal Corano, ma dalla giurisprudenza che lo interpreta. Le sure a cui di solito si fa riferimento sono XXIV, 31 e XXXIII, 59:

«Di’ alle credenti che abbassino gli occhi e custodiscano la loro castità, che non mostrino le loro bellezze eccetto quel che è visibile, che si coprano il petto con un velo e mostrino le loro bellezze solo ai mariti o ai padri o ai suoceri o ai figli o ai figli dei mariti o ai fratelli o ai figli dei fratelli o ai figli delle sorelle o alle loro donne o alle loro schiave o ai servi maschi impotenti o ai bambini che non notano la nudità delle donne.»

«Profeta, di’ alle tue mogli e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è indulgente e compassionevole.»

Non a caso nel corso del tempo gli usi sono cambiati e restano differenti ancora oggi da Stato a Stato. Le principali tipologie di velo sono hijab, chador, al-Amira, niqab e burqa. Si va da un primo modello che copre solo capelli e collo, ad un ultimo che copre tutto il corpo e nasconde perfino gli occhi dietro una griglia di tessuto. L’adozione di uno di questi modi di velare il corpo o una sua parte è dettata principalmente dalla tradizione culturale di riferimento, come mostrato da un report dell’Istituto di Ricerca Sociale dell’Università del Michigan nel dicembre 2013.

Resta pur sempre una pratica legata alla religione, sia che si tratti di un’imposizione – per la quale la religione funge da giustificazione – , sia che si tratti di una scelta libera.

Ad esempio, attualmente in Iran la legge impone alle donne di indossare almeno l’hijab in pubblico. Sono tristemente noti i casi di aggressione e incarcerazione contro coloro che non rispettano questa pratica; l’ultimo dei quali i primi di marzo riguarda l’avvocatessa iraniana Nasrin Sotoudeh: da anni in prima fila per difendere i diritti civili delle donne, è stata accusata di propaganda contro lo Stato, istigazione alla corruzione e alla prostituzione e di essere apparsa in pubblico senza velo, condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate. Ma il braccio di ferro non è nuovo: nel 2014 la giornalista iraniana Masih Alinejad ha lanciato My Stealthy Freedom, un sito dove le donne del suo paese possono caricare le proprie foto a capo scoperto. Una sfida tutta al femminile, poi ripresa alla fine del 2017 anche fuori dal mondo virtuale: Teheran ad esempio ha visto le sue donne sventolare in strada il proprio velo. Manifestazioni pacifiche di dissenso che, purtroppo, non sono rimaste impunite.

Appena un secolo fa le donne di Turchia, Egitto ed Iran già tentavano la strada dell’emancipazione, mentre i fondamentalisti le colpivano paragonando, ad esempio, la mancanza del velo alla nudità. Un pensiero che si riscontra anche nelle dichiarazioni della attuale Guida suprema dell’Iran Ali Khamenei:

Indossando l’hijab, le donne musulmane garantiscono sicurezza sia a loro stesse che agli uomini musulmani. Laddove si porti via l’hijab dalla donna, laddove le si spinga verso la nudità, si rende meno sicure innanzitutto le donne e poi anche gli uomini e i giovani.

Sul proprio sito, l’Ayatollah spiega con precisione la posizione conservatrice e, quindi, la politica che ne deriva per il Paese:

Le donne dovrebbero fare particolare attenzione ad osservare l’hijab e la modestia. È loro dovere. È fonte di onore per loro. […] L’hijab dona alla donna libertà e un’identità. Contrariamente alle campagne propagandistiche sciocche e superficiali della gente materialista, l’hijab non imprigiona la donna. […] Rende la donna più preziosa. Fa crescere la sua dignità e il rispetto di lei.

Mentre in Medio Oriente ci si batte per abolire quest’obbligo, in Occidente alcune donne di religione musulmana chiedono al contrario il diritto di indossare il velo.

In questi mesi hanno fatto il loro ingresso in scena la svedese Leila Ali Elmi e l’americana Ilhan Omar, prime parlamentari ad indossare l’hijab nelle rispettive assemblee. A Rio 2016 la sciabolatrice Ibtihaj Muhammad è stata la prima atleta Usa a partecipare a un’Olimpiade con l’hijab. Ma quello fu anche l’anno della strage di Nizza e del caso burkini sulle coste francesi. Il capo è stato bandito nell’estate 2016 da una quindicina di spiagge in seguito alla strage di Nizza, per poi essere dichiarato incostituzionale.

Oggi sul suolo europeo le restrizioni sono previste in Belgio, Francia, Paesi Bassi, Svizzera, Danimarca, Bavaria e alcune città della Catalogna, tra cui Barcellona, e riguardano sempre il velo integrale. Lo Stato francese, in particolare, vieta a tutti i suoi dipendenti pubblici di esporre simboli del proprio credo religioso, qualsiasi esso sia, per questioni di neutralità e laicità. In Austria il velo è stato recentemente vietato negli asili. In Italia sono proibiti burqa e niqab nelle strutture ospedaliere della regione Lombardia.

Al di là della legge, non manca chi storce il naso. Basti pensare alla polemica suscitata dal modello sportivo di hijab proposto da Decathlon e il conseguente dietrofront dell’azienda sulla sua commercializzazione. Per Xavier Rivoire, responsabile comunicazione Decathlon, si trattava di “rendere lo sport accessibile a tutte le donne del mondo”; il ministro dello sport Roxana Maracineanu si era pronunciata a favore in quanto “la pratica sportiva può favorire l’integrazione sociale”; ma Aurore Bergé, portavoce del partito del presidente Emmanuel Macron, non si è trovata d’accordo.

Lo sport emancipa. Non sottomette. La mia scelta di donna e di cittadina sarà di non far più affidamento a una marca che rompe con i nostri valori. Chi tollera le donne nello spazio pubblico solo se nascoste non è amante della libertà.

Non si tratta solo di diffidenza verso l’altro: il velo è impresso nell’immaginario di molti come simbolo della sottomissione della donna, della sua mancata emancipazione. Come possono costoro accettare che per delle altre donne lo stesso diventi invece oggetto di rivendicazione?

Alcune donne europee di fede musulmana hanno deciso di parlare della loro scelta e smentire alcuni stereotipi comuni. Vengono confuse per ninja o, in periodi di tensione, per terroristi. Ma il problema di fondo resta l’incomprensione, l’equivoco legato all’uso del velo, tanto che molte scelgono di non indossarlo proprio per non essere discriminate. Alcune ragazze che lo indossano spiegano in un video per BBC Three:

Lo indosso per Dio. È il mio viaggio spirituale, un atto di adorazione. Mi piace farlo e lo vivo.

Alla fine si tratta di un pezzo di stoffa, ma indossarlo mi dà un obiettivo. Non solo le donne musulmane sono umili. Ci sono tante di quelle religioni e di quelle persone che praticano l’umiltà in modi diversi.

E rispondono anche alla frase “Non puoi essere femminista e indossare il burqa”, affermando:

Non ha senso, perché vi mettete lì a dire “Oh, sei oppressa, ti vogliamo aiutare e vogliamo fare questo”. Ma non mi state facendo fare quello che voglio, non mi state lasciando libera.

Se il femminismo implica che una donna può fare le proprie scelte, allora questa è una di quelle.

Da questo punto di vista, le battaglie finiscono per essere sostanzialmente analoghe: entrambe per il diritto di scegliere come vestirsi e contro le imposizioni restrittive della libertà personale. La questione a livello legislativo incrocia anche il carattere laico della maggior parte degli Stati occidentali. Tanto non possono imporre una religione, quanto non possono impedire di professarne una e osservare il relativo percorso spirituale.


Cosa integrare allora? Un modo esteriormente diverso di vivere la fede oppure una libertà declinata solo secondo i propri canoni? Un diritto imposto resta ancora tale, quale che sia?  

Un ulteriore spunto di riflessione può venire da uno degli attacchi alla società occidentale di Khamenei sulla questione diritti e imposizioni:

Parlano dei diritti delle donne e si lamentano che abbiamo imposto loro di indossare l’hijab. Loro stessi hanno vietato per legge l’hijab e l’hanno imposto alle donne. Impediscono alle studentesse di entrare all’università solo perché indossano un foulard. E condannano comunque noi per aver reso l’hijab obbligatorio. Le nostre leggi sono tutti sforzi fatti per preservare l’onore della donna, ma le loro leggi sono lì per mancare loro di rispetto.

Forse i difficili interrogativi che le esigenze di integrazione presentano non riguardano solo cosa accettare di altre culture, ma anche cosa promuovere della propria. Il confronto stimola la riscoperta di ciò in cui ci si identifica. Ricorda che la fierezza richiede consapevolezza. Fatta della libertà una grande bandiera, non bisogna dimenticarsi come sventolarla.



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