Luci e ombre sui progetti di riciclaggio in Etiopia

Il nome Addis Abeba in etiope significa “nuovo fiore” o “nuova sorgente”, anche se fino a qualche tempo fa la capitale etiope non aveva nulla a che vedere con questo significato. La città era del tutto ricoperta dalla plastica: c’era plastica ai margini delle strade, nelle fognature, nelle discariche, e con la stagione delle piogge arrivava anche nei corsi d’acqua fino all’oceano.

L’Etiopia è il Paese africano che sta crescendo di più al mondo dal punto di vista economico e di conseguenza anche demografico. Questo ha provocato un aumento consistente della produzione di rifiuti e in particolare di plastica, come bottiglie d’acqua e di bibite. Si è passati da 1,2 milioni di rifiuti nel 2001 a 21 milioni nel 2010 e si calcola che alla fine del 2020 saranno centinaia di milioni.

Fino a poco tempo fa non esisteva alcuna regolamentazione per lo smistamento di rifiuti solidi e spesso si bruciava la plastica per eliminarla. Oggi la capitale etiope Addis Abeba è diventata il centro africano per eccellenza di raccolta e smistamento della plastica. Esempio per tutti i Paesi africani in cui la situazione non è dissimile.

Warchena, una lavorante, dichiara che la sua vita è migliorata:

 Mi chiamo Warchena, il mio nome vuol dire “tu sei oro”. Adesso la plastica è diventata il mio oro.

La plastica è una nuova risorsa per il popolo etiope: ha acquisito un valore economico che, seppur basso, è rilevante in un Paese che vive nella povertà. In ogni angolo della città si trovano collectors, raccoglitori: alcuni più professionali e altri meno che, trainati su carretti da muli malaticci, all’alba di ogni giorno girano per le strade a chiedere l’immondizia, poi alle otto vanno a venderla a 3 birr etiopi al kilo (l’equivalente 10 centesimi) alle aziende che la esportano in Cina, Europa e Usa. Chi non è raccoglitore cerca  di vivere del ricavato di una raccolta spontanea e della vendita di materiale non ancora decomposto.

Uno dei progetti di riciclaggio è “100% plastica” della Onlus italiana Cifa, che ha organizzato ad Hawassa una rete di raccoglitori suddivisi in 26 associazioni, i quali si occupano di convogliare la plastica cittadina in un luogo di raccolta, la Qoshe.

Questo luogo di raccolta è l’impresa di Enok Tangote, che impiega quaranta persone pagandole 2000 birr al mese, l’equivalente di sessanta euro. Qui si raccolgono una tonnellata e mezza di rifiuti al giorno che, dopo la lavorazione, finiscono in Europa.

I rifiuti di plastica cittadini vengono pressati in balle da 40 kg da una pressa fornita dalla Cifa e vengono traportati su camion nella capitale, dove sono rivenduti a 7 birr al chilo ad un’azienda etiope-italiana, la Coba Impact. Qui la plastica raccolta viene trasformata in flakes –scaglie– poi rivendute in Europa dove verranno trasformate in granulato di Pet, da cui si ricaverà plastica riciclata. Con il granulato si può produrre di tutto: preforme da cui si ricavano le bottiglie di plastica, contenitori, casse… Da qui provengono quelle bottiglie in plastica riciclata che compriamo al supermercato.

Bethlem Environ, un ingegnere ambientale di 27 anni che è riuscito a convincere gli studenti e i professori della sua università a non bruciare la plastica, racconta:

È ancora difficile convincere le persone a non bruciare i rifiuti, si è sempre fatto così. Le bottiglie ora si riesce a riciclarle ma l’altra plastica? E gli altri rifiuti? Sarà un percorso lungo convincere sempre più persone a differenziare e riusare.

In realtà questo progetto non è privo di ombre. Si inserisce infatti in un difficile contesto di guerre etniche: da dieci anni in Etiopia ormai si consuma la guerra tra etnia Oromo e Tigrina, moltiplicatasi in guerriglie tra etnie locali in seguito all’elezione dello scorso aprile del primo ministro dr. Abiy. Il primo ministro è infatti di etnia Oromo: il primo uomo di questa etnia ad essere arrivato ad una carica così importante. Con le liberalizzazioni attuate da dr. Abiy in questi ultimi mesi, sembra esserci stata una tregua tra le due fazioni, anche se solo apparente. Infatti i conflitti tribali tra etnie minori in ognuna delle nove regioni etiopi non sono cessati. Le associazioni addette alla gestione dei raccoglitori sembrerebbero aver peggiorato la situazione. Ad Hawassa, ad esempio, i raccoglitori erano tutti di etnia Wollaita, la più umile, tradizionalmente addetta ai lavori pesanti. I Sidama, l’etnia rivale, hanno accusato i Wollaita di usare la raccolta rifiuti a domicilio per spiare i nemici. Lo scorso giugno, in occasione della festa della fertilità, c’è stato un attacco da parte dei Sidama, che hanno ucciso centinaia di Wollaita con dei machete. È così che i Wollaita sono stati sostituiti dai Sidama nelle attività di raccolta.

Un altro grave problema è dato dal fatto che una bottiglia di plastica si può riciclare una volta sola, poi diventa veleno. Inoltre queste persone lavorano in discariche a cielo aperto, tra montagne di bottiglie di plastica, in cui l’aria è nociva. Molte famiglie vivono qui, in case ricavate da superfici in plastica.

Certo è importante per una Onlus mantenere un’immagine di sé il più possibile “pulita”, come associazione benefica che investe nel riciclaggio in un Paese altamente inquinato.

FONTI:

Guerre di plastica, L’Espresso 03/03/2019

lastampa.it

 

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