Non sono razzista, ma… una parte di me ci prova?

Il diverso proprio non ci piace. Ogni giorno le notizie di cronaca forniscono utili spunti alla nostra latente xenofobia, finché non ci ritroviamo anche noi a fare i conti con la famosa frase “non sono razzista, ma…”.

Come fa l’odio a insidiare le nostre doti empatiche? E come resistergli?
Bias

Tutto parte da un istinto innato: l’individuazione del diverso come possibile pericolo. Diverso significa ignoto, dunque un potenziale rischio per la nostra incolumità. In un certo senso, il cervello umano lavora per stereotipi – cioè categorie funzionali ad un veloce riconoscimento di ciò che ci circonda – e questo ne è uno. Il vero problema, però, nasce quando non disinneschiamo questo falso allarme, una volta rivelatosi tale. È in quel momento che dallo stereotipo creiamo un pregiudizio, ossia una valutazione basata esclusivamente su un’impressione superficiale, uno stimolo visivo “esteriore”. Insomma, a quel veloce riconoscimento non ha fatto seguito la fase in cui si guarda meglio e si scende nei dettagli; oppure questi dettagli sono stati sottostimati rispetto alla diversità in sé.

Neurologi e psicologi lo definiscono più propriamente bias razziale, laddove bias in ambito scientifico sta per interferenza, deviazione, difetto o errore di fondo. Un inquinamento delle prove, una distorsione dei dati nei test. Così è il pregiudizio: qualcosa che va ad intaccare la nostra percezione delle cose.

Questa immagine ha avuto ampia circolazione, ma risulta quanto meno semplicistica rispetto al fenomeno ben più complesso e profondo dipinto da questi studi neuroscientifici.
Morale sociale

Se pensiamo di esserne immuni, ci stiamo sbagliando. Oppure abbiamo qualche problema neurologico, una disfunzione dell’amigdala che spieghi la mancata sensibilità ad elementi della prassi sociale dati per assodati. L’atteggiamento razzista può essere esplicito (e consapevolmente elaborato), oppure implicito (e inconscio). Essendo riconosciuto come moralmente deprecabile nella nostra società, la sua esplicitazione è generalmente inibita dalla vergogna che porta con sé. Ciò vale anche a dire che quanto più i comportamenti razzisti diventano la norma, tanto più sarà facile che se ne manifestino: saremo portati a lasciar libere le nostre briglie.

Svariati studi hanno evidenziato che, invece, il cosiddetto razzismo implicito è condizione comune. Parliamo di sottili preferenze di una “razza” su un’altra di cui solitamente non ci rendiamo neanche conto. È stato dimostrato, ad esempio, che chi ha un nome solitamente associato alla razza caucasica ha maggior probabilità di essere chiamato per un colloquio di lavoro; oppure che i medici tendono a dare dosi di antidolorifici inferiori alle persone di colore. Si tratta di piccoli atteggiamenti che tradiscono quella parte del nostro cervello che ha riconosciuto il diverso come tale e lo ha associato ad un potenziale pericolo, salvo poi negarselo. Di fronte a persone di colore, infatti, è stata rilevata maggiore attività dell’amigdala, area cerebrale che risponde proprio allo stimolo della paura.

Vergogna

Il bias razziale, dunque, è un riflesso della cultura in cui viviamo, ormai insito nella nostra mente, e ci rimarrà anche a lungo. Le associazioni mentali basate sulla paura, infatti, sembrano essere più forti e durature: la componente emozionale le solidifica. Inoltre, la vergogna di ammettersi un atteggiamento razzista (per quanto non intenzionale) gli permette di persistere.

Il problema della vergogna è che continua a negare il coinvolgimento in qualsiasi cosa che abbia a che fare con la razza; in un certo senso, si diventa ciechi di fronte al colore, e tutto ciò che potrebbe causare vergogna è ugualmente negato. […] Legami con persone di colore potrebbero essere evitati, perché interagire con persone di colore evoca aspetti personali di vergogna. […] In questo senso, superare il razzismo non significa riconoscere solo il razzismo, ma anche il proprio senso di vergogna.

È quanto scrivono Francis L. Stevens e Alexis D. Abernethy nel loro articolo “Neuroscience and Racism: The Power of Groups for Overcoming Implicit Bias” (Neuroscienza e razzismo: il potere dei gruppi per superare il pregiudizio implicito). 

Empatia

Nello studio si osserva che il bias razziale determina una chiusura in gruppi (inclusivi per somiglianza, esclusivi per diversità), tra i quali l’empatia si manifesta in modo diverso. Nei confronti di chi fa parte di uno stesso gruppo si attiva la cosiddetta empatia emotiva. Sentiamo su noi stessi il loro dolore, ad esempio. Di un membro di altro gruppo, invece, per quanto ne comprendiamo il dolore, non siamo portati a provarlo in prima persona. Stevens e Abernethy la chiamano empatia cognitiva.

Quest’ultima, in realtà, secondo lo psicologo inglese Simon Baron-Cohen, che ha dedicato gran parte dei suoi studi all’empatia, non si potrebbe definire tale.

C’è empatia quando smettiamo di focalizzare la nostra attenzione in modo univoco (single-minded) per adottare invece un tipo di attenzione “doppia” (double-minded). […] L’empatia è la nostra capacità di identificare ciò che qualcun altro sta pensando o provando, e di rispondere a quei pensieri e sentimenti con un’emozione corrispondente.

Entrambe le fasi, riconoscimento e risposta, sono fondamentali. 

Dress the change

Passare dall’out-group all’in-group è possibile. La percezione dei gruppi, come già si accennava, può variare attraverso la socializzazione (anche questo è stato dimostrato). In particolare, Stevens e Abernethy affermano: 

Per cambiare uno stereotipo razziale valutativo o un bias implicito verso un’altra razza, è necessaria un’esperienza emozionale, non semplicemente una cognitiva. Un rinnovamento o riconsolidamento avvengono quando una nuova sensazione positiva prende il posto dei vecchi sentimenti di paura.

Per riprenderci un po’ della nostra empatia dovremmo semplicemente tornare a metterci nei panni dell’altro.


FONTI
Simon Baron-Cohen, La scienza del male.
Francis L. Stevens, Alexis D. Abernethy, Neuroscience and Racism: The Power of Groups for Overcoming Implicit Bias in International Journal of Group Psychotherapy.

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