Due passi nell’Inferno metropolitano di Seven

Prendete un talentuoso regista in piena rampa di lancio come David Fincher, aggiungete un cast stellare (Brad Pitt, Morgan Freeman, Gwyneth Paltrow e Kevin Spacey) e mescolate con una sceneggiatura cupa e priva di luce solare. Shakerate brutalmente e servite freddo, anzi, ghiacciato. Quello che avete appena ottenuto è Seven (1995), thriller di culto e dall’indubbio fascino esoterico.

Nei deliri di un sociopatico

Gola, avarizia, accidia, superbia, lussuria, invidia e ira: sette delitti per sette peccati capitali. Così John Doe (Kevin Spacey), serial killer ossessivo e dalla minuzia maniacale, vuole punire i mali che corrompono l’umanità. Crudeli fino alla morbosità, plateali ed esemplari: gli omicidi, originale e sadica interpretazione del contrappasso della Commedia dantesca, sono la sanguinosa espressione del suo fanatismo di matrice religioso-moralistica

«Adesso basta però, servirò da esempio e ciò che ho fatto ora verrà prima decodificato, poi studiato ed infine seguito, per sempre»

L’uomo, diabolico e metodico calcolatore, ha pianificato tutto nei minimi dettagli, arrivando persino ad asportarsi la pelle dei polpastrelli onde evitare di lasciare impronte.

La scure del giudizio divino si abbatte, priva di alcuna pietà e senza operare differenze di rango o censo, su tutti gli strati sociali, con il fine ultimo di sconvolgere l’opinione pubblica affinché qualcosa possa cambiare:

«Oggi, se vuoi farti ascoltare, non è più sufficiente battere educatamente sulla spalla delle persone, devi colpirle con un maglio e solo allora ti concederanno piena attenzione»

Quello architettato dall’assassino di Seven è un mosaico di violenza che i due detective, Mills (Brad Pitt) e Somerset (Morgan Freeman), si trovano a dover ricomporre in un’escalation d’orrore e raccapriccio.

Il primo, appena trasferitosi in città con la moglie Tracy (Gwyneth Paltrow), affronta l’indagine con il tipico ardore giovanile; il secondo, prossimo alla pensione e ormai disilluso, rappresenta la controparte riflessiva e meno coinvolta emotivamente della coppia. Insieme, esaminando i prestiti bibliotecari di libri sul peccato (dal Paradiso perduto di Milton fino all’Inferno di Dante), i due riescono nell’intento di dare un’identità al killer, presenza fino a quel momento avvolta dal mistero.

Non può piovere per sempre (o forse sì)

A togliere ogni residuo spiraglio di luce e positività a Seven è l’ambientazione: una metropoli tormentata dalla pioggia e dal crimine (inevitabile è, a tal proposito, il richiamo alle atmosfere del Blade Runner di Ridley Scott), in preda al vizio e alle degenerazioni dell’animo umano. Il comparto fotografico, con l’utilizzo della tecnica del bleach bypass (aumento del contrasto che riduce la saturazione dei colori), contribuisce alla rappresentazione di uno sfondo urbano opprimente e degradato.

Tuttavia, proprio nelle battute finali, il focus narrativo si sposta altrove: dopo essersi consegnato ai due investigatori, John Doe viene scortato nel luogo in cui sostiene di aver seppellito gli ultimi due cadaveri. Tralicci dell’alta tensione e una desolata distesa desertica bruciata dai raggi del sole, questa la location scelta per l’epilogo conclusivo. Il grigiume dei piovaschi sembrerebbe ormai alle spalle, l’assassino è stato catturato e ci sono tutti i presupposti per un finale conciliante: e invece no.

Il cerchio si chiude

Proprio alla luce del giorno, infatti, viene consumato l’unico omicidio on-screen di Seven: al killer mancano due peccati per concludere la propria crociata di espiazione nei confronti dell’umanità, invidia e ira. L’arrivo di un furgone delle consegne, risolutivo deus ex machina, fa precipitare ogni proposito di lieto fine e l’apertura del pacco insanguinato, erede moderno del vaso di Pandora della classicità greca, spegne ogni residuo barlume di speranza.

È giunta l’ora di fare ammenda anche per l’assassino:

«Sono passato a casa tua stamattina, quando già eri uscito. Ho giocato a fare il marito, ho giocato ad assaporare la vita dell’uomo comune… Ma non ha funzionato, allora ho preso un souvenir. […] Perchè io invidio la tua vita normale, a quanto pare è l’invidia il mio peccato».

La vista della testa mozzata di sua moglie Tracy e la rivelazione di John Doe circa la gravidanza della donna accecano di rabbia l’agente Mills che, in un impeto di disperazione, uccide l’uomo, portando a compimento il morboso disegno del folle predicatore:

«Trasformati in vendetta, David. Trasformati… in ira»

Rimasto solo dopo l’arresto del collega, nella luce fioca del tramonto, il detective Somerset commenta amaramente:

«Hemingway una volta ha scritto: «Il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso.» Condivido la seconda parte».

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