Tornare avvezzi al reale. La conversazione necessaria

La richiesta di educare oggi al corretto utilizzo del Web, analizzandone pericoli e potenzialità, giace ancora inascoltata. Autodidatti del digitale, ci addentriamo nel mondo social-virtuale con strumenti e anticorpi creati da noi, come ideali vaccini auto-generativi che il nostro corpo produce in vista di sempre più assidue escursioni in mondi nuovi. Affrancarci da una seria e programmatica educazione sembra però essere sempre più rischioso e il nostro equipaggiamento ogni volta più inadatto e fragile. A dircelo è un testo fondamentale, La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale di Sherry Turkle, uscito per Einaudi nel 2016. Caposaldo di tutta un’epoca, La conversazione necessaria è una lettura dalla quale nessuno dovrebbe prescindere: l’autrice e sociologa Sherry Turkle ha la capacità, con una sintassi piana e un linguaggio semplice e cristallino, di liberarci dal velo di Maya e mostrarci le verità che si nascondono dietro i nostri comportamenti e riflessi quotidiani.

Nel 1845 Thoreau, durante il suo tentativo di ritiro dalla vita comunitaria documentato in Walden, racconta di avere tre sedie nella sua capanna:

«una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la compagnia».

Di solitudine si intendeva anche Thomas Mann che in La morte a Venezia ne dedica un elogio:

«la solitudine genera l’originalità, la strana e inquietante bellezza, la poesia, ma anche il contrario: l’abnorme, l’assurdo, l’illecito».

Una tale coscienza dell’importanza di saper stare da soli, secondo Sherry Turkle, è ormai andata persa e, se si è incapaci di stare per mano soli con sé stessi, difficilmente si riuscirà a prestare orecchio e voce all’altro. Che il presente abbia perso la saviezza dei nostri predecessori non è un fatto nuovo, ma quello che scopre ai nostri occhi con le sue semplici parole Sherry Turkle è il resoconto di un’emergenza, tanto più grave quanto più è in noi radicata, spontanea, e quindi pericolosamente invisibile.

Postare sui social netwotk (Facebook, Instagram and co.) è diventato per la maggioranza atto irriflessivo, tant’è che l’autrice ha coniato l’azzeccatissima espressione su calco cartesiano «condivido, dunque sono»; un’iperbole che non mente. Pubblicare un contenuto sul social network è spesso un atto agrodolce, dal retrogusto amaro che stenta ad andare via e rimane incastrato e indecifrabile. L’autrice riconosce in questo sentimento un dissidio sintomatico che si scatena in noi tra «il desiderio di esprimere il nostro Io più autentico e le pressioni a mostrarci online al nostro meglio». Sulla dimensione e sulla nostra proiezione identitaria virtuale è possibile esercitare un massimo controllo: costruiamo parallela alla nostra identità reale una digitale, che possiamo lucidamente plasmare a piacimento nostro e soprattutto degli altri, in un diretto controllo della nostra immagine.

Anche in ogni rapporto umano sussiste un atto performativo, ma che viene bilanciato da una percentuale di imprevedibilità inevitabile: per quanto cerchiamo di manipolare la nostra immagine, di presentarci secondo modelli prefissati e desiderati, la conversazione reale apre degli spiragli di imprevedibilità da cui emerge il nostro io autentico. Online questa componente di imprevedibilità è ridotta a zero, perché il nostro sguardo si moltiplica e si sdoppia: autori di noi stessi, ne siamo anche spettatori, e ci guardiamo in un continuo gioco di specchi, rimbalzi e riflessi che colmano, serrando con chiodi e martello, i margini dell’incontrollabilità e ci fanno tendere a una tanto ideale quanto nociva e imprigionante perfezione. Si compone allora un circolo vizioso, perché, se sulle piattaforme web è così semplice – al limite del subdolo –  plasmare e controllare il proprio sé, diventa poi difficile riuscire di nuovo ad accettare l’imperfezione e l’imprevedibilità che nasce da una conversazione concreta. Ciò che sembra darci forza e potere, in realtà, esaurisce certe nostre risorse e capacità necessarie ad affrontare il quotidiano. Postando, sacrifichiamo una parte intima, privata e autentica della nostra personalità e del vivere quotidiano sull’altare della condivisone pubblica, che con il suo sguardo distorce e modifica la natura della cosa in sé, in un inevitabile tradimento.

Nel libro Sherry Turkle non tratteggia per il lettore solo uno scenario dai toni allarmanti, ma articola una soluzione e offre un antidoto, quello della conversazione necessaria. Più volte l’autrice ritorna sull’assoluta reversibilità dei comportamenti online, che possono essere limati da una maggiore consapevolezza e da un ritorno alle vecchie abitudini. Ri-educare alla conversazione è la socratica cura alla deriva digitale e al vuoto di empatia, in una prospettiva di certo «non anti-tecnologica», bensì «pro-conversazione». Tornare a parlare, a guardare negli occhi le persone, re-imparare ad annoiarsi durante conversazioni poco interessanti, permettersi di sbagliare ad alta voce, sono tutti piccoli passi per restaurare i rapporti con sé stessi e con gli altri e ritornare un po’ più umani.


FONTI

La conversazione necessaria, Sherry Turkle, Einaudi, 2016

 

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