Dopo aver acceso la lampada vedo improvvisamente la mia ombra enorme che va dalla parete al soffitto. E nel grande specchio sopra la stufa vedo me stesso, il mio volto spettrale. Tutti i ricordi, le più piccole cose, vengono alla superficie.
Le parole di Edvard Munch rivelano uno stato di profonda solitudine in una realtà priva di certezze e di punti di riferimento stabili. Una realtà in cui regna un cieco individualismo, che privilegia una corsa egoistica a vantaggio dei propri benefici personali, più che la difesa degli interessi della collettività. Munch incarna lo spirito di un’epoca che, sulla fine del XIX secolo, vede crollare i valori del Positivismo, facendo spazio a un clima di incertezza sconosciuto all’uomo dell’Ottocento, fervo sostenitore di quella che era nota come la “fiumana del progresso”. Le teorie di Freud sugli abissi dell’inconscio spalancano le porte a un’epoca di precarietà e disorientamento, che per certi versi non è molto distante da quella che stiamo vivendo.
Un individualismo che conduce all’alienazione
Centinaia di teste chine sui propri smartphone, concentrate su chissà quale priorità della loro vita, quasi come se scambiare una parola di troppo fosse peccato. Una scena che viviamo quotidianamente sui mezzi pubblici di qualunque città, dove troppo spesso a fare da padrone è un silenzio scomodo, un muro sempre più difficile da abbattere.
Così come a volte può sembrarci uno sforzo eccessivo salutare il vicino dall’altra parte della strada, aprire la chat di un amico che, per un motivo o per l’altro, non sentiamo da tempo, o chiedere un semplice “come stai?” a qualcuno a cui vogliamo bene ma del quale ogni tanto magari ci dimentichiamo, fino a dire “grazie” a chi ci ha aiutato a portare a termine qualcosa che probabilmente non eravamo in grado di compiere da soli. Portare le borse della spesa su in casa, tanto per fare un esempio.
Siamo talmente concentrati su noi stessi, che finiamo per ignorare gli altri. Perché quello che ci importa davvero è realizzare la nostra individualità, riempire le nostre giornate, tappare le preoccupazioni e far vedere al mondo che in un modo o nell’altro «va tutto bene». E Munch questo lo sapeva bene. Aveva capito già più di cent’anni fa che l’egoismo e l’ipocrisia sono le malattie peggiori dell’uomo.
Genesi dell’opera
È l’impossibilità di comprendere il reale attraverso la ragione ciò che Munch vuole rappresentare ne Il grido. Un urlo spaventoso che usciva dalle viscere della terra, iniziando a pervadere tutto. A scatenarlo era stata l’immagine di un cielo improvvisamente tinto di un rosso sanguigno, tipico dei tramonti dell’Europa del Nord.
Una sera camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò e il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.
Scrisse il pittore norvegese in una pagina di diario.
Un urlo interiore, manifesto del dramma esistenziale dell’uomo, che vive sopito dentro di noi e qui esplode in un paesaggio allucinato e distorto, reso attraverso linee ondeggianti e instabili e irradiato da un incendio di colori. Una delle visioni più agghiaccianti che l’arte sia mai stata in grado di evocare. Una scena che provoca un senso di attrazione e di repulsione insieme.
Il grido è ambientato in un paesaggio allucinato, dominato da due colline e da un fiordo attraversato da barche. Un sentiero delimitato da una staccionata è l’unico elemento rettilineo in una composizione dallo spazio instabile e distorto, al centro del quale emerge un volto disperato, metafora dell’angoscia dell’esistenza. Il personaggio, privo di qualsiasi caratterizzazione, assume le sembianze di un essere agonizzante. Personificazione dell’artista stesso e della condizione umana in generale, proietta il proprio dolore mortale sulla realtà circostante. In quel turbine di disperazione straziante che sconvolge l’intero paesaggio, gli unici a rimanere immuni sono i due uomini in ombra sullo sfondo, indifferenti al disagio esistenziale che invade la scena.
Munch come incisivo interprete dell’oggi
Così Munch dà voce in modo efficace a una drammatica concezione individuale che si trasforma in un malessere epocale e universale tutt’altro che anacronistico. Perché almeno una volta è capitato a tutti di sentirsi soli e incompresi, anche in una moltitudine di gente. Resta ben inteso che siamo ancora in tempo a riemergere da questo naufragio di solitudine, con la consapevolezza che una mano tesa o un semplice sorriso possono essere le risposte migliori a una richiesta d’aiuto che qualcuno non ha ancora avuto il coraggio di farci.
Fonti
G. Bora, G. Fiaccadori, A. Negri, I luoghi dell’arte, vol. 5, Mondadori, Milano, 2010.
Credits