Sahel: tra operazioni militari e terrorismo islamico

La presenza francese in Nord Africa è ben nota al grande pubblico, non fosse altro per il fatto che il francese è lingua co-ufficiale di molti Paesi africani. In realtà, l’esperienza coloniale francese sopravvive ancora sotto molti aspetti. Uno di questi è il Franco CAF, moneta di molti Paesi dell’area del Sahel. Questa valuta è stata tuttavia recentemente rinominata ECO e, seppur legata all’Euro, ha perso quella connotazione francese che la contraddistingueva.

Aspetto da non sottovalutare è poi la presenza militare francese (e non solo) nel Sahel, una fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana, e l’annosa questione del terrorismo islamico in quest’area. I cinque maggiori alleati della Francia in questa lotta, denominati G5 del Sahel, sono Mali, Mauritania, Burkina Faso, Niger e Ciad. Quest’ultimo rappresenta l’unica vera dittatura paternalistica dell’area, sebbene si tenti di negarlo; le altre quattro nazioni sono invece democrazie, perlomeno pro forma. Tuttavia, proprio Ciad ha appena annunciato che non impiegherà più le proprie truppe all’esterno della regione ed in missioni internazionali.

Le operazioni francesi in Africa occidentale hanno una lunga storia, a cominciare dall’operazione Epervier partita in Ciad nel 1968 e conclusasi nel 2014. Le operazioni militari in Mali sono iniziate invece nel gennaio 2013 con il nome di “operazione Serval”: lo scopo era quello di arrestare l’avanzata di gruppi armati in territorio maliano.

Il tutto confluì ben presto in un’unica operazione detta “operazione Barkhane”, parola che indica una duna desertica mobile e a forma di croissant (nazionalismo ne abbiamo!). I soldati messi in campo dai francesi sono stati 4500 fino a novembre 2019, da febbraio il contingente è salito a 5100 effettivi. Finora i morti, tra operazione Serval e Barkhane, sono stati quarantuno.

Non si tratta dell’unica task force internazionale presente sul territorio. Esiste infatti anche un contingente ONU (Minusma), tra i più grandi di questo genere, con 13.000 caschi blu, e una missione europea (EUTM Mali) con 620 soldati, volta all’addestramento delle truppe locali.

Da Barkhane a Takuba: le operazioni franco-europee

L’operazione Barkhane tuttavia si appresta a essere integrata da una più specifica operazione “Takuba”, parola  che significa “spada”. L’operazione è stata caldeggiata dalla Francia in un’ottica più ampiamente Europea rispetto all’operazione Barkhane, più strettamente francese. Infatti, è da parecchio tempo che la Francia, ottima conoscitrice di quei luoghi, sostiene la necessità di una forte presenza europea nell’area. Presenza che ovviamente ha lo scopo primario di sostenere le truppe locali attraverso l’addestramento ma che si estende anche alla lotta diretta al terrorismo; il tutto senza dimenticare la tutela degli interessi nazionali.

Finora, le forza aderenti oltre alla Francia sono l’Estonia, la Danimarca, i Paesi Bassi e il Portogallo. La Svezia intende partecipare ma deve aspettare l’autorizzazione parlamentare mentre la Norvegia si limiterà a un sostegno puramente politico. Stesso discorso per la Germania che non interverrà direttamente, mentre il Belgio si è offerto di inviare personale civile ma non militare. Gli accordi sono stati supervisionati dal Ministero delle Forze Armate francesi Florian Parly.

A queste nazioni potrebbe tuttavia aggiungersi l’Italia, dopo l’intesa raggiunta da Conte e Macron al vertice di Napoli tenutosi alla fine di febbraio. Per il momento però non c’è nessuna notizia su quale potrebbe essere la portata del contingente e che effetto avrà la pandemia Covid-19 in relazione alla partecipazione italiana.

Il piano originario prevedeva inoltre che le truppe iniziassero a fluire verso l’Africa alla fine dell’estate, in modo da essere operative per i primi giorni dell’autunno. Tuttavia, proprio a causa della pandemia sopracitata, non ci sono certezze nemmeno sotto questo punto di vista.

Breve storia dello Stato Islamico del Grande Sahel

La morte di Al-Baghdadi, leader mondiale dell’ISIS, nel  novembre 2019, seppur clamorosa dal punto di vista mediatico, ha avuto scarso effetto nell’indebolimento delle varie organizzazioni terroristiche. Il cedimento, almeno apparente, dello Stato Islamico di Siria e Levante, ha evidenziato come la minaccia sia più ampia ed estesa. Se infatti all’inizio si poteva, o voleva, pensare che eliminare quell’organizzazione avrebbe risolto il problema, i fatti dimostrano che non è così.

Lo Stato Islamico è “sedicente” non per nulla. Infatti, la sua mancanza di una vera struttura e di ideali realmente condivisi lo rende un’idra geopolitica, o, più prosasticamente, un’inarrestabile macchia d’olio. Un ottimo esempio di questa inconsistenza è proprio lo Stato Islamico del Grande Sahel (SIGS), una “filiale” africana dell’ISIS fondata nel 2015 da Adnan Abu Walid al-Sahrawi, prima a capo del Fronte Polisario.

Ai suoi esordi, prima del giuramento di fedeltà ad Al-Baghdadi, il neonato SIGS era anche legato ad Al-Qaeda tramite il gruppo al-Mourabitoun. Proprio il giuramento, fatto arbitrariamente a nome di entrambi le fazioni, portò ad una brusca separazione tra i due gruppi.

In particolare, l’SIGS opera nella regione cosiddetta delle “tre frontiere”, ovvero al confine tra Mali, Burkina Faso e Niger. Chiaramente, uno dei nemici principali di questa organizzazione, oltre ai governi dei Paesi del Sahel, è lo Stato Francese, a causa del suo grande coinvolgimento nell’area.

Tuttavia non si tratta dell’unico gruppo terroristico e nemmeno dell’unico gruppo terroristico islamico associato all’ISIS. Per esempio, le differenze tra SIGS e l’altra grande organizzazione regionale associata all’ISIS (“Wilayah West Africa”) sono incerte e spesso azioni del SIGS vengono attribuite all’altra organizzazione. Questo è dovuto a motivi di “politica interna” del Califfato che tende a privilegiare “Wilayah West Africa”; insomma, un’operazione di branding.

Terrorismo nel Sahel

Lo Sahel è un’area martoriata dalle violenze terroristiche da ormai dieci anni e gli attentati sono all’ordine del giorno. I principali gruppi sono Ansarul Islam, il gruppo per il supporto dell’Islam e dei musulmani (GSIM) e il già citato Stato Islamico del Grande Sahara (SIGS); tuttavia ce ne sono anche molti altri minoritari.

Nei Paesi non esiste una linea unitaria sulla maniera di fronteggiare la minaccia terroristica. Dei Paesi del G5 del Sahel, l’unico Stato che resiste all’onda è la Mauritania. Infatti, sin dal 2011, non ci sono stati attacchi terroristici nel Paese. Il merito va alla durissima repressione messa in atto dal precedente presidente/dittatore Mohamed Ould Abdel Aziz. Tuttavia, è difficile coniugare una linea dura manu militari con un sistema democratico così debole come quello di questi giovani Stati.

Proprio questa difficoltà nel controllare le proprie frontiere ha spinto il Mali a chiedere aiuto alla Francia e all’ONU. Tuttavia, il problema è ancora lungi dall’essere risolto, nonostante il dispiegamento di forze militari e l’aumento della spesa militare. Questo sta portando il governo maliano a considerare l’opzione delle trattative con i jihadisti. Anche questa soluzione non è esente da problematiche: infatti, oltre a mostrare la debolezza del governo, si deve tener conto della pluralità di referenti, uno per ciascuna organizzazione.

Altro Stato colpito è il Burkina Faso, paese povero anche per gli standard africani. Gli stessi esponenti del governo ammettono di essere “nell’occhio del ciclone” a causa del numero sempre crescente di attacchi. Coloro che più ne risentono sono i soldati burkinabè, che muoiono come mosche a causa dei numerosissimi attentati. Questo avviene anche perché le truppe sono malamente addestrate. Il Burkina Faso è inoltre l’ultima barriera prima degli Stati costieri: un cedimento al terrorismo in questa zona rappresenterebbe una minaccia di proporzioni impensabili.

Analisi e previsioni

Il peso del nuovo intervento europeo è impossibile da stabilire in anticipo, ma è fortemente improbabile che porterà a una risoluzione definitiva dei problemi. A dimostrazione, è sufficiente osservare i risultati delle altre missioni europee o americane in Stati colpiti al terrorismo (o supposto tale).

Il problema è più grande dei singoli gruppi terroristici e affonda le radici nella debolezza delle entità statuali. Infatti, come ben noto, all’interno di questi Stati vivono gruppi etnici, religiosi e linguistici diversi; conseguenza della creazione di confini arbitrari, retaggio del colonialismo. Inoltre, all’interno di questi Paesi vastissimi ci sono aree completamente desertiche e impossibili da controllare, cosa che favorisce l’illegalità. Non a caso, come raccontato nell’articolo, una delle zonepiù “calde” è proprio la quella di confine tra Niger, Burkina Faso e Mali.

Altre problematiche sono la povertà e la scarsità di risorse e servizi che, nelle zone più remote di difficile controllo, sono talvolta garantiti proprio da questi stessi gruppi terroristici. Questo porta alla creazione di una sorta di incolpevole connivenza tra persone comuni e organizzazioni terroristiche.

Se da una parte non si possono attribuire tutte le colpe alle esperienze coloniali e neocoloniali (sfruttamento delle risorse e della manodopera a bassissimo costo), certamente esse costituiscono una pesante eredità.

Non ha nemmeno senso dare la colpa all’intolleranza religiosa. Il Burkina Faso, Paese poverissimo, ha rappresentato per anni un esempi perfetto di integrazione tra cristiani, musulmani ed esponenti di altre religioni minoritarie. Solo l’arrivo di queste organizzazioni terroristiche, spesso a carattere islamico, è riuscito a incrinare questo armonioso  rapporto interconfessionale.

Si tratta ancora una volta di gruppi che in nome di (o meglio schermandosi dietro) certi valori, spesso interpretati arbitrariamente, portano violenza, odio e morte. A dimostrazione che alla fine, al di là di religioni, ideologie, interessi o fattori etnici usati per giustificare le azioni, gli uomini sono tutti molto simili tra loro.

 

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