Il fallimento dei giudizi su Silvia Romano

Silvia Romano è stata liberata. Qualsiasi cosa venga detta a proposito, questa buona notizia non può essere inquinata dalle polemiche che hanno accompagnato la sua liberazione.

Il rapimento

Nel 2018, Silvia Romano era un’educatrice per i bambini in un villaggio del Kenya tramite l’onlus Africa Milele. A novembre dello stesso anno è stata rapita da tre uomini appartenenti al gruppo di jihadisti somali di al-Shabaab, legati ad al Qaeda.
A seguito del rapimento, dopo una serie di spostamenti, la Romano è stata portata in Somalia. Durante i mesi di reclusione il luogo in cui è stata trattenuta è cambiato più volte, ma lei stessa ha dichiarato di essere sempre stata trattata bene e non aver subito violenze. Le trattative per liberarla sono iniziate nell’estate 2019 e, grazie alla collaborazione dell’Aise (i servizi segreti italiani che operano all’estero) con i servizi segreti turchi, si sono concluse tra l’8 e il 9 maggio.

Le prime reazioni alla liberazione

La cooperante è atterrata a Ciampino il 10 maggio ed è stata accolta con gioia dalla sua famiglia e dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, insieme al ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
Il ricongiungimento con la famiglia dopo 18 mesi di prigionia è stato commovente, soprattutto al tempo di una pandemia che dà agli abbracci un peso del tutto nuovo.

Ma la prima cosa che è saltata all’occhio dei commentatori in diretta nazionale è stato altro: l’abbigliamento di Silvia Romano. Per la sua prima apparizione pubblica dal rapimento, la donna ha indossato il jilbab. I giornalisti non hanno tardato a specificare che questi “abiti islamici” fossero motivati dalla sua recente conversione all’Islam, avvenuta spontaneamente. Qui la prima pioggia di offese: sembra che l’opinione pubblica abbia messo da parte il contesto felice della liberazione in un nanosecondo, per chiedersi perché una donna italiana possa essersi convertita a una religione da molti vista come nemica. Tante le supposizioni, dall’imposizione da parte dei terroristi alla sindrome di Stoccolma, come se non si potesse scegliere di praticare una religione diversa da quella predominante per un interesse sincero. Ma, soprattutto, come se avesse qualche importanza.

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Una persona italiana è meno italiana se di un’altra religione?

La principale lamentela riguardava il fantomatico riscatto pagato ai terroristi per liberare Silvia Romano, il cui dibattito si basa solo su supposizioni. Non sono stati dichiarati i dettagli dell’operazione, né tantomeno le cifre eventualmente pagate, ma molti hanno comunque accusato lo Stato di aver finanziato i terroristi, e la Romano di esserne alleata. Per qualche giorno, buona parte degli italiani (o comunque una parte molto rumorosa) ha dimostrato di non saper distinguere l’Islam dal terrorismo, come se non stessero aspettando altro che un capro espiatorio per scaricare le forti tensioni degli ultimi mesi.

Alcuni giornali (non è il caso di nominarli) hanno fatto leva su questi sentimenti per fare polemiche sterili con titoli a effetto. L’Italia che ne risulta è islamofobica e intollerante, ma per fortuna non ha niente a che vedere con gli ideali della Costituzione, secondo cui un cittadino italiano va salvato a qualunque costo, a prescindere dalle sue scelte di vita. Se davvero esistesse una sorta di selezione all’ingresso su chi aiutare nel bisogno, a molte persone verrebbero rifiutate le cure mediche per mali “meritati”, come gli incidenti stradali in stato d’ebbrezza. Ma quando si guarda alla vicenda di Silvia Romano, ogni retorica sporca del “se l’è cercata” (il cosiddetto victim blaming) è ancora più insignificante: la cooperante era in Africa per aiutare gli abitanti di un villaggio. Una scelta potenzialmente rischiosa, forse, ma nobile e intoccabile. La sua religione e il suo abbigliamento sono piccoli dettagli che riguardano solo lei.

Notizie false e dichiarazioni confidenziali

Prima di calcolare l’entità delle offese, bisognerebbe chiedersi se le informazioni che sono state diffuse alla velocità della luce fossero vere e non confidenziali. Ad esempio, alcuni quotidiani hanno riportato la notizia del nuovo nome della donna, Aisha, pur specificando che lei lo avesse rivelato solo alla psicologa che la accompagna in questo momento delicato della sua vita. Perché l’informazione è trapelata lo stesso?

Per non parlare poi delle supposizioni che in un attimo sono diventate virali pur essendo false, come che si fosse sposata con uno dei carcerieri e che fosse persino incinta. Notizie veloci a diffondersi ma difficilissime da debellare, come erbe infestanti che hanno resa ancora di più indigesta l’immagine di quella donna sorridente, felice di essere tornata a casa, per chi si aspettava (e sotto sotto forse desiderava) di vederla affranta e traumatizzata.

La gogna mediatica

Gli insulti sono arrivati da tutte le direzioni, dai commenti nei social (spesso utilizzando profili falsi) a situazioni istituzionali. Quest’ultimo è il caso del deputato della Lega, Pagano, che in Parlamento ha definito Silvia Romano una “neo-terrorista”. Un consigliere comunale veneto le ha augurato la morte, il direttore di un giornale ha paragonato le sue vesti tipiche orientali alle divise dei nazisti. Il presidente Conte, in difesa della cooperante, ha commentato la vicenda in diretta nazionale il 13 maggio:

Chiunque abbia da speculare su Silvia Romano dovrebbe trovarsi a 23 anni rapito in Kenya, essere trasportati nella foresta bendati, passati in quattro rifugi consecutivi con guardiani armati. Dopo il ritorno potremo ascoltare e verificare tutte le conseguenze del caso.

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Il quartiere milanese di Silvia Romano l’ha accolta con un forte entusiasmo generale, ma le ingiurie tanto diffuse in internet non hanno tardato a manifestarsi anche lì: sono stati trovati, sotto l’abitazione della cooperante, messaggi d’odio e minacce più o meno esplicite, come i cocci di una bottiglia spaccata sotto la sua finestra. La situazione si è rivelata talmente grave da richiedere l’apertura di un’indagine, mentre la prefettura di Milano sta valutando di aumentare la tutela della donna (non si tratterebbe di una vera e propria scorta, ma il concetto è simile), per la quale a questo punto si temono aggressioni fisiche.

Ne usciremo davvero migliori?

Bisogna dirlo chiaramente: l’unica colpa di Silvia Romano è di essersi mostrata felice e in salute davanti a un pubblico che non vedeva l’ora di nutrirsi della retorica stantia della donna fragile e indifesa.
Ci sono stati diversi uomini, prima di lei, che sono stati rapiti da terroristi islamici e hanno deciso spontaneamente di convertirsi alla religione islamica, persino adottando i look che l’immaginario collettivo associa inevitabilmente all’Islam, ma di certo la risposta mediatica non è stata la stessa che è toccata alla Romano.

La gogna mediatica che le è stata riservata ha ricordato molto quella toccata a Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani volontarie sequestrate in Siria nel 2014 e liberate dopo cinque mesi di prigionia. Tra i loro connazionali ci fu chi le accusò di essere irresponsabili e viziate, e di essere partite per la Siria per “farsi i selfie con i terroristi”. Non mancarono i commenti volgari, chiaramente, perché quando si tratta di donne, gli insulti sono sempre figli del sessismo ancora dilagante.

Su una donna che decide di dedicarsi al prossimo, soprattutto se il prossimo appartiene a una cultura diversa, si dirà che il suo interesse non è la beneficenza ma il desiderio carnale. L’equazione sempre pronta tra donna libera e prostituta, insomma, viene usata per giustificare le preoccupazioni sul costo della liberazione: con i soldi del riscatto che andranno inevitabilmente a finanziare i gruppi armati. Un’occasione persa per affrontare un tema importante – come rendere più sicure le missioni umanitarie? Come “aiutarli a casa loro” senza rischiare la propria pelle? Domande a cui forse si potrebbe tentare di rispondere, se non si dovesse ogni volta sprecare così tanto tempo per restituire dignità a queste donne.

Viene da pensare che l’emergenza coronavirus non abbia cambiato niente: l’odio era sempre lì, sotterraneo, nascosto dagli striscioni con gli arcobaleni e gli “andrà tutto bene”. Aspettava solo il momento giusto per uscire allo scoperto, per dimostrare che forse non ne usciremo migliori.

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