Vox Explained In poche parole Netflix

“In poche parole”, il mondo spiegato semplice

C’è un episodio di In poche parole, una serie di mini-documentari co-prodotta dal sito di notizie statunitense «Vox» e da Netflix, che è molto utile per capire un po’ di cose sul nuovo coronavirus. L’episodio si intitola La prossima pandemia e in venti minuti spiega con molta chiarezza come si sviluppa una pandemia e quanto il mondo attuale sia preparato per contenerne le conseguenze sanitarie ed economiche. Il piccolo particolare, però, è che questo episodio risale a ben prima che il nuovo coronavirus si diffondesse. Benché venga da pensare a uno di quei video profetici o complottisti che circolano in questo periodo, si tratta di un più semplice esempio di giornalismo che analizzando in modo innovativo il presente cerca di capire come sarà il futuro.

In poche parole è la trasposizione televisiva di quel che «Vox» fa dal 2014, quando fu fondato dal trio di giornalisti Ezra Klein, Melissa Bell e Matt Yglesias: spiegare temi importanti e complessi nella maniera più chiara e semplice possibile, se necessario ripartendo dalle basi più ovvie. Il claim del sito, “Understand the news” (ossia “capire le notizie”), racchiude bene questo intento e va anche piuttosto controcorrente rispetto al resto del giornalismo online, che spesso sacrifica la qualità delle notizie per battere sul tempo la concorrenza.

Vox Explained In poche parole Netflix

Il tratto distintivo dell’approfondimento di «Vox» sono i cosiddetti “spiegoni”, ma anche la sua capacità di declinarli con efficacia in diverse forme mediali: pezzi lunghi e articolati, podcast, post su Instagram e video. Soprattutto con i suoi contenuti social, infatti, «Vox» ha risolto brillantemente un dilemma difficile da gestire per l’informazione odierna: raccontare un mondo sempre più complesso a un pubblico che ha sempre meno capacità di attenzione.

Il canale YouTube di «Vox» ad esempio è una fucina di video che di rado superano i dieci minuti. Nonostante questo riescono a trattare una gran quantità di argomenti lasciando poco spazio a dubbi e domande. Basta dargli una rapida occhiata per rendersi conto che In poche parole non è altro che una sua piccola copia creata per Netflix. Nell’approdare sul servizio streaming i video si sono leggermente allungati – durano dai 14 ai 25 minuti – e non sono più raccolti per aree tematiche.

Dalla prima uscita nel 2018, In poche parole – il cui titolo originale è Explained – conta finora due stagioni e 35 episodi rilasciati con cadenza settimanale. Gli argomenti sono diversi: dalla crisi mondiale dell’acqua ai diritti delle donne, dall’orgasmo alla musica, dalla storia dei tatuaggi alla possibilità di vivere in eterno. Non tutti sono convenzionali: ce n’è anche uno sui punti esclamativi, per dire. Ma l’impressione non è affatto quella di trovarsi davanti a un’accozzaglia casuale di contenuti.

A dar coerenza alla serie è una struttura che si ritrova in tutte le puntate. Per ogni tema si riparte dall’inizio, ricostruendolo dalle basi, per poi analizzarlo nel presente e valutarne anche le possibili implicazioni future. La voce narrante è invece affidata a personaggi ogni volta diversi, come gli attori Kristen Bell e Christian Slater, la cantante Carly Rae Jepsen, la modella Karlie Kloss.

La prossima pandemia – settimo episodio della seconda stagione – è narrato ad esempio dalla voce cavernosa dal premio Oscar J. K. Simmons. La puntata parte dall’ipotesi che una nuova pandemia possa uccidere fino a 33 milioni di persone in soli sei mesi. Da qui la narrazione torna indietro nel tempo per spiegare altri contagi che in passato hanno colpito la popolazione mondiale. In particolare ci si sofferma sull’epidemia di SARS, che tra il 2002 e il 2003 si diffuse in Cina dal contatto tra gli esseri umani e alcuni animali selvatici venduti in diversi mercati locali, proprio come si suppone sia accaduto con il nuovo coronavirus. Il focus si sposta infine sulla prevenzione tanto sanitaria (attraverso la ricerca sui vaccini, ad esempio) quanto economica, interpellando alcuni esperti tra cui Bill Gates.

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Trattandosi di un episodio rilasciato lo scorso novembre, ci si stupisce di quanto questo mini-documentario abbia anticipato tutti gli approfondimenti che stiamo leggendo e guardando negli ultimi mesi. E il fatto che le sue ipotesi si siano concretizzate in un futuro che al momento abbiamo sotto agli occhi rafforza l’autorevolezza dell’intera serie.

In poche parole riesce a essere “accattivante a livello sensoriale, senza privare gli elementi visivi del loro significato” ha scritto «IndieWire» cogliendone esattamente la forza. Il che sottolinea che per quanto si adegui alla semplicità e creatività di linguaggio tipica dei social, non perde il suo valore informativo. Anzi. In qualche modo lo amplifica. Per spiegare nel modo più chiaro possibile gli argomenti di cui si occupa, «Vox» utilizza qui tutti gli strumenti visivi a sua disposizione. Ci sono disegni sovrapposti alle immagini reali, grafici animati e se necessario anche fermoimmagine sui passaggi importanti o su cui si tornerà più avanti. La firma di «Vox» si riconosce poi nell’attenzione particolare per i media e per il modo in cui raccontano ciascun tema, siano film, spot pubblicitari, notiziari tv o articoli di giornale.

Così quel che si è appreso riesce a imprimersi nella mente nonostante l’enorme quantità di stimoli, contenuti e informazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno. Anche perché molti degli esempi scelti sono abbastanza particolari da farsi ricordare. A guardare In poche parole s’impara che per produrre una tazzina di caffè ci vogliono 130 litri d’acqua; che il Ruanda è uno dei primi dieci paesi al mondo per parità di genere (il primo è l’Islanda); e che la formula per la longevità non è tanto capire come curare il cancro, quanto come rallentare l’invecchiamento, altrimenti è come mettere un secchio sotto un lavandino che perde anziché ripararlo.

Che poi, è un po’ la stessa funzione che In poche parole svolge per Netflix: provare in parte a riparare il problema delle sue docuserie, che spesso cedono nella tentazione di annacquare il proprio racconto, rischiando di cadere nella ripetizione e nel sensazionalismo.


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