Sindrome della Capanna: il prigioniero volontario dipinto dall’arte

Uno non deve mettere i fiorellini alla finestra della cella della quale è prigioniero, perché sennò, anche se un giorno la porta sarà aperta, lui non vorrà uscire.

Silvano Agosti

Sindrome della Capanna
Harold Knight

Viene etichettata come Sindrome della Capanna o del Prigioniero. Colpisce chi proprio non vuole abbandonare il rifugio domestico al termine del lockdown. Chi, nell’oppressione della chiusura, non cerca l’evasione, ma il mantenimento della nuova routine acquisita.

Secondo quanto riporta la Società Italiana di Psichiatria, ne è rimasto colpito un milione di italiani. È quindi un problema collettivo, di estensione internazionale. La sua denominazione proviene da oltreoceano, in quegli Stati americani il cui freddo è così pungente che gli abitanti non possono fare altro che rintanarsi nel torpore domestico per sopravvivere.

Sindrome della Capanna
Konrad Ernst Theophil Kreidolf

Si crea così una condizione letargica, affine a quella di alcuni animali a sangue caldo. Il corpo rifiuta temporaneamente la realtà esterna e si richiude in uno stato di protezione e salvaguardia personale. Ma gli animali e gli abitanti americani si proteggono da una situazione oggettivamente non affrontabile, il freddo invernale. I prigionieri della Sindrome della Capanna, invece, costruiscono sul volontario rifiuto il loro approccio all’altrove. Anche se si tratta di una realtà conosciuta, perché parte della loro quotidianità già prima dell’attuale emergenza sanitaria.

Quest’ultima ha indotto un drastico cambiamento di abitudini. È il motivo per cui la maggior parte delle persone agogna la libertà per tornare ai ritmi precedenti e recuperare un po’ di normalità. Ma c’è anche chi ha difficoltà a cambiare le proprie abitudini e ad adattarsi alle repentine trasformazioni dell’esterno. Soprattutto quando si è adagiato su una nuova routine, quella del nido domestico. Una realtà sicura, confortevole che, tra la fine del’800 e la prima metà del ‘900, diventa un abitudinario soggetto pittorico.

Uomini, donne e bambini sono ritratti nella spensierata timidezza dei loro pensieri, davanti a un libro, uno scrittoio o una finestra. È la perfetta rappresentazione di una borghesia che si crogiola nella naturalezza degli impieghi di casa. Un tranquillo abbandono domestico, confermato dalla leggerezza delle pennellate e dalle atmosfere calde e soffuse.  Queste rivestono la mano di artisti come Harold Knight, Berthe Morisot, Albert Edelfelt e Ernst Kreidolf. Tutti ispirati alla pittura di genere, nata in Olanda e nelle Fiandre tra Cinquecento e Seicento.

Edmund Blair Leighton, L’ostaggio (1912)

I soggetti ritratti potrebbero rispecchiarsi nella contemporanea Sindrome della Capanna. Bastano due settimane perché l’individuo si adatti a una nuova routine, che potrebbe essere differente da quella passata. Soprattutto per soggetti poco flessibili, abitudinari e scarsamente propensi all’adattamento, come gli anziani. Per loro è più semplice cercare rifugio in casa. Quello che c’è fuori, instabile e soggetto a repentini cambiamenti, non è facile da digerire.

Vincent Van Gogh, La ronda dei carcerati (1890)

Lo si interroga con uno sguardo confuso e rivolto a un altrove indefinito. È conosciuto, eppure così lontano dal prigioniero, che spera che la realtà esterna si plasmi su quella che ha fatto propria. I suoi occhi sono velati di paura, come quelli dell’ostaggio del pittore Edmund Blair Leighton. La donna ritratta dà le spalle all’osservatore, ma è intuibile il sentimento che prova, come misto di paura ed eccitazione per ciò a cui vuole ritornare.

C’è la possibilità di un’azione reattiva per sopperire alla paura. Pochi cambiamenti, centellinati dalle abitudini domestiche fino ai primi spostamenti all’esterno. Così i soggetti non sono vinti dall’apatia de La ronda dei carcerati di Vincent Van Gogh, ma vogliono reagire. L’obiettivo è recuperare il proprio equilibrio personale, iniziando con il cambiamento dell’ordine delle attività quotidiane. Ma come si può fare? Si sceglie un nuovo posto a tavola, si cambiano gli orari in cui guardare la televisione o la tipologia di letture a cui affidarsi.

Sindrome della Capanna
Dietro una finestra chiusa

L’evoluzione parcellizzata e graduale permette di combattere i sintomi frequenti della Sindrome della Capanna. Dall’insonnia, all’ansia agorafobica, fino alla depressione. Ne soffrono soprattutto gli ipocondriaci, più colpiti dall’avanzata dilagante di una pandemia. C’è poi chi ha paura dell’abbandono, di dover rimanere solo ad affrontare qualcosa che non conosce.

La chiusura e la distanza sociale incentivano inconsapevolmente tali sintomi, colpendo chi è più fragile. La realtà appare deformata, se osservata da una finestra che non si vuole aprire. La sindrome del prigioniero si consuma così dietro la simbologia della finestra chiusa. È un ostacolo fisico, che si frappone tra l’individuo e la sua paura. Ma non può diventare talmente appagante esteticamente da non volerla più aprire. Altrimenti sarebbe come se invitasse il prigioniero a vedere in lei una nuova forma di esterno.

In tal caso, la realtà sarebbe un labirinto di case isolate e fluttuanti, come quelle ritratte dalla mente surreale di Laurent Chéchère. Tante case con altrettante finestre aperte e chiuse, a identificare la volontà dei loro proprietari. Ciò che li unisce è solo la condivisione di una stessa condizione. Ma la consapevolezza e la speranza per il futuro possono rappresentare un filo conduttore. In questo modo, invitano all’apertura anche chi sembra aver già rinunciato, scegliendo il rifugio più sicuro.

Ho paura di uscire, ehi. E alla fine sono uscito. E alla fine sono uscito.

Ho paura di uscire 2, Machete (ft. Salmo & Lazza)


 

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