L’etnobotanica, per definizione, è il campo di studi interdisciplinare che “coinvolge l’antropologia culturale, la botanica, la linguistica e si occupa del modo in cui nelle diverse società le piante vengono classificate e dei significati simbolici e metaforici di cui si riveste localmente il rapporto tra l’essere umano e il mondo vegetale.” In parole povere, questa disciplina si occupa di analizzare le piante e tutta la flora sotto un punto di vista più culturale che scientifico, ricercando nelle fonti e nelle abitudini comuni ogni traccia di riflessione che riguardi questi soggetti vegetali per poi pensare alle cause che hanno portato a tali considerazioni. Somiglianze materiali, richiami verbali, credenze popolari, magiche e mediche dei tempi che di queste piante si sono serviti nei più svariati modi.
Una delle piante più indagate di sempre è la cosiddetta Barba di Giove. Oggi conosciuta come Drosanthemum Hispidum, pianta grassa annuale proveniente dall’Africa del Sud che si adatta particolarmente ai giardini rocciosi e nel periodo estivo si colora di piccoli fiori viola, era un tempo identificata in modo incerto. Plinio la descriveva come pianta ornamentale e restia all’acqua, di spessore notevole e con le foglie tendenti a sfumature argentee, forse per la peluria che le ricopriva. Altri però la associavano alla pianta Capelli d’oro, altri ancora a un sempreverde e alcuni a un certo tipo di muschio. Ciò che tutte queste avevano in comune, tuttavia, era la caratteristica barba: come poteva essere pensato il padre onnipotente degli dei se non con una barba da uomo vissuto, esperto e sapiente quale era il sovrano dell’Olimpo? Ebbene, nonostante questo, non fu in realtà la somiglianza “fisica” a determinare il loro nome, ma un’altra peculiarità. In greco la parola kómē indicava tanto le foglie vegetali quanto i capelli umani, infatti, secondo Aristotele, le piante erano una sorta di uomo capovolto. Esse erano anche spesso usate per descrivere metaforicamente il concepimento e lo sviluppo dell’embrione umano visti come una germinazione. Inoltre, così come il fogliame viene prodotto dalla linfa, anche i capelli si pensava necessitassero di umidità per svilupparsi e crescere, e che quest’ultima nel caso umano venisse data dal seme maschile. Per Aristotele il cervello, essendo la parte più umida, rendeva la testa il luogo più ovvio per la crescita della chioma. Dunque, ci si aspetterebbe che la Barba di Giove abbia, come il suo referente fisico, bisogno di acqua…peccato che tutte le possibili piante etichettate sotto questo nome amassero l’asciutto. Ed è qui che l’interpretazione ideologica subentra: la Barba di Giove, così come la barba del dio, cresce “sempre fresca e umida, senza la necessità della presenza di alcun elemento liquido, in contrasto con la barba e i capelli umani.” La Barba di Giove era in tutto e per tutto una barba “sovrumana”.
Un altro vegetale che, nella sua semplicità, si è rivelato interessante da un punto di vista simbolico-interpretativo è la Mano di
Sebbene un occhio scientifico potrebbe trovare irrilevanti certe nozioni, non va tuttavia derisa la visione che gli antichi avevano del mondo “verde” che li circondava, anzi. È stato questo, infatti, a costituire per numerosi secoli la fonte delle loro medicine, delle loro cure, dei loro esperimenti. Qualcosa che, se si nota bene, legava profondamente religione e scienza, fede e ragione, superstizione e realtà: un legame che oggi non potrebbe essere più strappato. Del resto, da dove potevano partire le spinte alla conoscenza, al tentativo e al miglioramento, se non dalla natura?
Svetlana Hautala, Piante – capitolo undicesimo in Con i Romani, un’antropologia della cultura antica a cura di M. Bettini e W. M. Short, il Mulino, 2014