Etty Hillesum, una coscienza e uno spirito limpidi

Etty Hillesum, una storia come tante?

Esther (Etty) Hillesum nasceva nel 1914, a Middelburg, da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. La sua voce, come tante altre, spezzata e lasciata cadere senza valore nei macelli dei campi nazisti, è stata affidata negli ultimi anni a un diario, le cui parole riecheggiano ancora forti nelle coscienze e negli animi di coloro che l’hanno letto. La confessione di una vittima che non si è sottratta alla condanna della viltà e dell’orrore dell’Olocausto, ma che follemente non ha mai perso la speranza nella bellezza della vita.

Le pagine di cui è composto, che vanno dalla sua permanenza in Amsterdam fino all’arrivo ad Auschwitz, passando per il corposo periodo di permanenza nel campo di smistamento di Westerbork, sono state raccolte e conservate da alcuni amici sopravvissuti e affidate per la pubblicazione a Jan Geurt Gaarlandt, editore, giornalista e autore olandese. Gaarlandt, colpito dal valore di quei testi, nel 1980 si mette in moto con alcuni collaboratori e compie un lavoro di decifrazione e snellimento degli otto quaderni raccolti. L’opera, una volta approntata, avrà molta fortuna, prima in Olanda e poi in tutto il mondo, avviata a una celebrità pari quasi a quella che ha avuto il diario di Anna Frank; due testimonianze che, sebbene provengano pressoché dallo stesso contesto, sono radicalmente differenti.

Il cuore pensante della baracca

Quello di Etty Hillesum è innanzitutto il diario di una donna matura, o quasi: ha infatti ventisette anni quando giunge nel campo di Westerbork. Una ragazza trepidante, piena d’energia e curiosità, curiosità anche sessuali, che sente il bisogno di approfondire – da una parte nutre un bisogno originario di ascesi, dall’altra è presa dal turbinio delle passioni.

È legata, da prima che arrivasse al campo, a un uomo, Han, ma non nasconde a se stessa il desiderio che prova per gli altri uomini che incontra. Ne parla con placidità, senza demonizzarsi e senza moralizzare a riguardo, così: “la mia curiosità erotica, che s’interessa a molti uomini”. Vagheggia anche la vita di coppia, ma, coscienza irrequieta e ferocemente critica, si chiede se questo desiderio non sia invece soltanto un retaggio della società patriarcale, un’idea d’abitudine cui è portata per condizionamento sociale – in effetti non si legherà mai, ufficialmente a un solo uomo. I suoi sono perciò i dubbi di una giovane donna del suo tempo che prima di confrontarsi col contesto esterno si confronta con se stessa.

La ragazza che non sapeva inginocchiarsi

La storia che Etty ci e si racconta attraverso la scrittura è soprattutto una storia intimista, lontana dal clamore assordante e tremendo del campo. È la storia di una donna che compie un percorso intimo alla ricerca delle sorgenti più profonde del suo Io; è la storia del suo risveglio spirituale, della sua “presa di coscienza”, come la definisce lei, la storia della “ragazza che non sapeva inginocchiarsi […] e che ha imparato a farlo” per usare ancora la sua stessa espressione.

Nel campo di Westerbork, in Olanda, lontana dalla famiglia e dagli amici – lontana da casa – inizia a coltivare un profondo e complesso sentimento che sente albergare nella sua intimità più sepolta e segreta. È un sentimento primordiale, che sempre rilancia se stesso e non si posa mai e che ogni giorno dev’essere da lei ricercato, scavato, riportato alla luce.

Con l’aiuto in particolare della personalità magica (come l’hanno definito coloro che lo conoscevano) dello psicochirologo Julius Spier (S. nel diario, allievo di Carl Gustav Jung) e dopo lunghi mesi e numerose pagine di riflessione e crescita interiore, Etty comincerà a identificare quel suo personalissimo sentimento con Dio: “quando prego, non prego mai per me stessa […] dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo Dio”.

Mai rassegnarsi, mai scappare

Il percorso che si è proposta è accidentato ed Esther non lesina tra i quaderni sulla descrizione dei momenti bui, sulle cadute: “è tutto sbagliato un’altra volta […] e ora mi ritrovo in mezzo agli arbusti”, sempre pronta a combattere interiormente, ogni volta nelle più minime sfumature (come le ha insegnato Dostoevskij), con tutto ciò che le si presenta innanzi, a faticare per dissotterrare le sue sorgenti: “certe volte invece essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo”.

Paga le sue “orge di vita interiore” (sua peculiare espressione) con frequenti mal di testa e piccoli malesseri e alterna momenti di euforia e ascesi a momenti invece di prostrazione e incertezza: “paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa. Repulsione. Paura” sempre però conscia che “Non sono mai le circostanze esteriori, è sempre il sentimento interiore – depressione, insicurezza, o altro – che dà a queste circostanze un’apparenza triste o minacciosa”.

Riferimenti che vengono da lontano

Il suo pensiero, la sua ricerca sembrano richiamare soprattutto con il pensiero e le parole dei mistici, dei religiosi. Infatti, legge la Bibbia, stralci dai Vangeli e da Sant’Agostino. Ha un approccio per certi versi eremitico alla vita e proprio come un eremita, come un’asceta, parla di soppressione del dolore e delle pulsioni: “l’idea del dolore va distrutta […] allora si libera la vera vita e la vera forza che sono in noi […] la forza di sopportare il dolore reale”.

La sua è una ricerca spirituale profondissima – affidata e ancorata alla fede dei suoi quaderni – che la solleva dalla realtà immediatamente materiale e che stupisce anche nelle parole che usa per descriverla: queste arrivano immediate e non affettate, lasciando anche spazio a una pacata ironia; non fa uso di retorica per sottolineare quel che vive, per convincere o indottrinare qualcuno.

È lampante come questo sentimento, questo Dio interiore con cui parla non sia qualcosa di inventato o frutto di un delirio, ma qualcosa di effettivo ed estremamente personale, che percepisce davvero. La sentiamo vicina a noi, sollevata da un piano solo materiale, ma pienamente a contatto con la realtà, non estraniata o impazzita, sebbene il suo dottore le dirà che “vive troppo nella mente e troppo poco nella realtà” – come se avesse paura che da un momento all’altro potesse smaterializzarsi.

L’ombra dell’orrore

Fuori dalla sua persona, intanto (e questo va sempre tenuto presente) gli eventi vorticano caotici, sanguinolenti e sempre più neri: le sinagoghe vengono bruciate, le persone attorno a lei spariscono, treni carichi a dismisura si dirigono verso i forni crematori; si sta consumando la Shoah. L’esperienza in cui è immersa è quella che farà scrivere al filosofo Theodor Adorno la ben nota sentenza che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” e che tormenterà tutta l’esistenza di Primo Levi – questo lo si comprende meglio all’interno della sua produzione lirica, piuttosto che nella prosa.

Si avverte dunque qualcosa che stride nel leggere il diario di Etty Hillesum a fronte di tutto questo, nel soffermarsi su una frase del genere (che si riferisce al periodo di permanenza nel campo nazista): “l’anno più fruttuoso e felice della mia vita, l’anno della presa di coscienza”. Le domande, le perplessità si moltiplicano: da una parte stupore e incredulità davanti a tanta energia di spirito, a un animo tanto espressivo, dall’altra disillusione, scetticismo.

Uno scetticismo tutto contemporaneo

Può parere delirante, illusorio, presuntuoso oppure ingenuo, ma d’altronde questo diario altro non è che il resoconto scritto dei rivolgimenti interiori d’una donna di ventisette anni. Forse per via della visione della mistica orientale filtrata in Europa da Schopenhauer e da Hesse (per come è stata recepita) o a causa delle “magie di moda delle religioni orientali” di cui cantava Guccini, la spiritualità e il misticismo sono ad oggi considerati elementi intellettualmente indegni, quasi alla stregua di complotti terrapiattisti, di soluzioni al cancro pseudonaturopaticoparamediche o delle lacrime che le statue stillano a Medjugorje.

Un’onestà cristallina

Ma a salvaguardare la bontà e l’interesse della sua scrittura è lei stessa: è proprio Etty infatti la prima a essere scettica nei confronti del misticismo. “La vita è un insieme compiuto e significante, si fa assurda quando se ne accetta una parte a piacere e diventa arbitraria”. Il pensiero per lei deve contemplare ogni cosa, non può essere selettivo né affidarsi all’esaltazione o all’incupimento del momento, altrimenti starebbe solo facendo un esercizio di – scrive – belle lettere. Etty è sempre attenta alla realtà, a non farsi trasportare da chissà quali profonde intuizioni o fantasie: il misticismo, afferma, “deve fondarsi su un’onestà cristallina: quindi bisogna prima aver ridotto le cose alla loro nuda realtà”.

C’è anche chi, senza pregiudizio, su opere del genere ha studiato e lavorato. Ed ecco per esempio un saggio che disorienta già nei suoi termini di paragone: Piet H.Schrijvers, “I diari di Etty Hillesum” e “Le Lettere di Seneca”.

Rainer Maria Rilke

Autore prediletto di questa incredibile ragazza olandese è Rilke, poeta anch’egli legatissimo alle riflessioni e alle esperienze spirituali. Etty è talmente legata alla sua opera che nel partire per Auschwitz l’unica cosa che ha cura di portare con sé è proprio il “Libro d’ore” rilkiano, nel quale si rispecchia limpidamente. Poco prima di partire si chiederà se quel poeta che tanto amava, in una condizione come la sua, di persecuzione e reclusione, sarebbe riuscito a resistere, abituato com’era “a vivere chiuso in un castello”.

Aveva però già risposto, in un certo senso, mesi prima: “Una poesia di Rilke è altrettanto reale e importante di un ragazzo che cade con l’aeroplano”.

FONTI

Sylvie Germain, Etty Hillesum, una coscienza ispirata, Edizioni Lavoro, Roma, 2000

Etty Hillesum, Diario, 1941-1943, Adelphi, Milano, 1996

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