Marcel Mauss e i braccialetti che non si possono perdere

Quando si parla di animismo, siamo soliti associare questo termine a credenze primitive, irrazionali e decisamente superate. Ma siamo sicuri di non essere un po’ animisti anche noi o, almeno, di non esserlo mai stati? Jean Piaget, pedagogista russo attivo nel XX secolo, nei suoi studi sulla psicologia dello sviluppo analizzò come nel periodo dai due ai sette anni il bambino presenti un pensiero di tipo egocentrico. Ciò significa che non è in grado di guardare il mondo da una prospettiva diversa dalla propria. Questo comporta, per esempio, che osservando il Sole muoversi in cielo associ il movimento dell’astro ad uno dei movimenti che compie lui stesso. Allora pensa che il Sole si sforzi quando si muove, oppure che lo faccia con una qualche finalità. Piaget non aveva esitato a definire questo meccanismo di pensiero come animismo. I più piccoli lo applicano a tutti gli oggetti dell’ambiente che li circonda. Fa sorridere teneramente che un un bimbo immagini un’auto come “viva” (che abbia un’anima) perché la vede muoversi.

 Ma siamo sicuri che quest’atteggiamento intellettuale sia da circoscriversi all’età infantile? Siamo certi che superata la soglia dei sette anni il nostro pensiero non inciampi (magari inconsapevolmente) in forme di animismo? Forse no. Sarà capitato a tutti di smarrire un oggetto: un braccialetto, degli orecchini, un ciondolo, qualcosa che insomma ci siamo portati addosso per tanto tempo e che sentivamo che avesse assorbito un po’ di noi. E chi non si è concesso il piacevole conforto che offre credere che quel braccialetto, che ormai ha preso la forma del nostro polso, tornerà da noi? E chi, ritrovando quel braccialetto, non è stato tentato di pensare (o ha pensato con convinzione) che in un qualche modo quel piccolo oggetto abbia fatto in modo di farsi trovare, perché desiderava tornare da noi? Bisogna ammettere che qualche spiraglio di animismo, seppure stemperato e sbiadito, ogni tanto può fare capolino nei nostri modi di pensare. Certamente, si tratta di concedersi un innocuo strappo alla regola della razionalità, un inoffensivo raccontarsi in segreto di come il braccialetto ci abbia voluti inseguire, per aggiungere un po’ di sapore al ritrovamento inaspettato.

Eppure, questo ritrovamento non è qualcosa di inaspettato per tutti. C’è chi se l’aspetta, chi lo attende e, anzi, si sorprenderebbe di non rivedere più quell’oggetto. C’è chi è sicuro che il bracciale tornerà indietro, perché quel bracciale ha un’anima che lo spinge a tornare dall’affezionato proprietario.

Marcel Mauss

Per Marcel Mauss, antropologo francese vissuto a cavallo fra Otto e Novecento, il concetto di hau è fondamentale per spiegare questa tendenza delle cose a tornare tra le mani del legittimo proprietario. Basandosi su quanto spiegato dal vecchio saggio maori Tamati Ranapiri all’etnologo Elsdon Best, per Mauss lo hau coincide con l’anima delle cose. Nel suo “Saggio sul Dono” del 1921, Mauss se ne era interessato per spiegare i circuiti economici di società che non prevedono l’uso del denaro nella transazione di beni. In questo caso, quindi, credere nell’anima degli oggetti non è utile a condire di romanticismo l’aneddoto del braccialetto ritrovato, ma alla spiegazione del funzionamento di veri e propri sistemi economici. Nel momento storico in cui “Everything is for sale”, così come s’intitola il libro del 1988 di Robert Kuttner, Mauss decise di interessarsi a culture appartenenti allo stesso momento storico, ma con una concezione economica diversa. Così, volse lo sguardo alle cerimonie del pulatch degli kwakiult del Canada e ai riti nelle isole Trobriand. In entrambe i casi si tratta di vere e proprie transazioni che non contemplano l’uso di denaro, fondate invece sulla pratica del dono e, per Mauss, anche su un certo animismo.

Cos’è un dono per lo studioso francese? È un atto che genera un rapporto tra chi dona (donatore) e chi accetta il dono (donatario). È condivisione volontaria di ciò che si ha. Uno dono che non si vuole fare non sarebbe un vero dono, mentre il dono volontario avvicina chi dà e chi riceve. Ma, a ben guardare, è anche un debito per chi accetta. Il dono allora, avvicina e allontana le parti simultaneamente: crea un’asimmetria, una gerarchia fra donatore e donatario. Lo stesso Mauss, tra l’altro, aveva premesso che non è possibile studiare il dono in modo isolato, ma come parte di un insieme di rapporti che si allacciano tra gli individui per via della concatenazione di tre obblighi: quello di donare, quello di accettare il dono e quello di donare a propria volta.

Scene di Kula nelle isole Trobriand

Per spiegare i primi due obblighi, l’antropologo si era rifatto a motivazioni sociologiche: si è obbligati a donare perché donare obbliga, si è obbligati ad accettare perché rifiutare significherebbe entrare in conflitto con chi offre. È invece per spiegare il terzo punto che Mauss si rimette a Tamati Ranapiri, ponendo l’accento su ragioni ideologiche e mistico-religiose. Ciò che spinge chi ha ricevuto un dono a restituirlo sarebbe una forza, l’azione di uno “spirito” presente nell’oggetto ricevuto, che lo indurrebbe a tornare fra le mani del proprietario originario. Secondo Maurice Godelier, attento lettore di Mauss, sembrerebbe che gli oggetti donati siano abitati non uno, ma addirittura due spiriti: in primis da quello del donatore e poi da un’anima propria dell’oggetto stesso, che quindi lo renderebbe in grado di agire come una persona e di esercitare un certo potere sugli altri. È questa dinamica, che spinge a donare e a ricambiare, a mettere in moto il meccanismo di circolazione dei beni presso queste popolazioni.

Quello che torna indietro quando si immette un bracciale nel circuito del kula, in genere, non è lo stesso gioiello, ma un altro bracciale o un altro oggetto con lo stesso valore.  Il proprietario primo, però, potrebbe rivendicarlo in qualsiasi momento e ritornarne legittimamente in possesso. Questo perché quello che il possessore decide di donare agli altri è l’uso di una cosa, non la sua proprietà. Quella resta al donatore, perché è suo il pezzetto di anima che il bracciale si porta dentro.

Così, quando ci si sente un po’ ingenui per aver immaginato che il braccialetto che si aveva smarrito sia stato capace di venirci a cercare e farsi ritrovare per tornare da noi, si può pensare che in altri angoli di mondo l’aver portato avanti questa convinzione ha permesso la creazione di sistemi economici fondati sul dono, piuttosto che sul denaro.

FONTI

S.Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli, “Antropologia culturale. I temi fondamentali”, Milano, Cortina Editore, 2018

www.treccani.it

www.psiconline.it

The Black Box

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.