Musei, o depositi di beni rubati?

In Europa, sono numerosi i musei che contengono manufatti appartenenti a popoli di origine extra-europea. Di questi, alcuni sono parte di bottini dell’epoca coloniale. Sorge dunque un interrogativo quantomeno legittimo: perché quei reperti rubati non sono ancora stati restituiti? Attualmente sulla questione è in corso un dibattito che perdura da alcuni decenni, ma che, presumibilmente, è destinato a protrarsi ancora a lungo.

Il discorso, infatti, è piuttosto complesso, perché le opere considerate si trovano in molti musei in tutta l’Europa, e risalgono ad epoche e popoli diversi. Un esempio è il Pitt Rivers Museum, presso l’università di Oxford: qui sono ospitate le ricche collezioni archeologiche e antropologiche appartenute al fondatore, Augustus Pitt Rivers. Quest’ultimo scelse di donarle all’università perché venissero esposte a fini educativi. Tuttavia, recentemente ci si è chiesti quali di queste opere siano possedimenti legittimi – e quali, invece, andrebbero rese ai discendenti dei popoli a cui sono state sottratte.

Alcune tsantsa conservate in un museo

Un’altra importante questione riguarda la modalità con cui le opere sono presentate nei musei. Nel Pitt Rivers Museum, il fondatore volle organizzare la presentazione su base tematica, e non geografica (benché si tratti di manufatti provenienti da varie zone del mondo), per presentare il progredimento della cultura umana. Questo criterio espositivo è oggi criticato in quanto specchio di una cultura colonialista che vede nei manufatti dei popoli africani e asiatici l’espressione di forme d’arte primitive, barbariche e inferiori rispetto a quelle europee. Inoltre, non si teneva in alcuna considerazione la sacralità di certi oggetti esposti, come ad esempio un totem della cultura Haida, alto ben 11.36 metri, oppure le cosiddette teste rimpicciolite, meglio note come tsantsa.

Per secoli le tsantsa, realizzate con teste umane o di scimmia, sono state esposte nei musei europei con categorizzazioni razziste e riferimenti alla missione civilizzatrice degli uomini bianchi. A lungo gli europei, infatti, hanno interpretato queste teste come barbari trofei di guerra, e le hanno collezionate, incentivando un traffico di tsantsa oggi illegale. Le teste venivano importate dall’Ecuador e dal Perù ed erano realizzate da diverse popolazioni indigene (i più noti sono gli Shuar). Tuttavia, non è ancora chiara la funzione delle teste: secondo alcuni ricercatori, fabbricare le tsantsa permetteva di trattenere lo spirito del defunto, affinché il suo potere generasse buoni raccolti.

Di recente, il Pitt Rivers Museum ha rinnovato le modalità di esposizione della propria collezione, tramite l’utilizzo di un criterio diverso, più accurato storicamente. Per quanto concerne le tsantsa, trattandosi di resti umani, si è scelto di nasconderle perché oggi non è possibile mostrarle accompagnate da spiegazioni sufficienti sulla loro storia ed origine. Si vuole evitare che le teste vengano interpretate erroneamente da visitatori inconsapevoli, perciò sono state sostituite da pannelli che spiegano dettagliatamente le ragioni della loro mancata esposizione.

Anche il Museo d’arte africana a Tervuren, in Belgio, ha tentato un rinnovamento per favorire un’esposizione più etica e problematica rispetto alla storia coloniale del Paese. Il museo, infatti, venne creato negli anni Cinquanta e contiene un’ampia collezione di oggetti artistici di provenienza africana, importati all’epoca del governo di Leopoldo II, sovrano belga dal 1865 al 1909. La crudeltà del colonialismo belga in Congo, proprietà privata del re, è tristemente nota. Il museo di Tervuren, a lungo ritenuto l’ultimo museo coloniale al mondo, ha voluto cambiare la propria immagine ripercorrendo la storia della colonizzazione con uno sguardo critico. Il restauro è durato a lungo e ha portato alla nascita di una nuova area che affronta il tema, complesso, della decolonizzazione.

Si esprime così Guido Gryseels, Direttore Generale del museo dal 2001:

Non vogliamo più essere un museo dell’Africa coloniale. La nostra nuova esposizione permanente mira a dipingere un quadro dell’Africa moderna, quella nel presente e nel futuro, senza trascurare la storia comune del Belgio e dei paesi africani. Ciò significa che affrontiamo anche temi contemporanei come le diaspore, la biodiversità e il cambiamento climatico, la vita quotidiana, le lingue e la musica, e il paradosso della ricchezza naturale: l’Africa infatti è un continente molto ricco di minerali, ma la sua popolazione è ancora molto povera.

Uno dei bronzi del Benin che si trovano al British Museum

Non sono dunque pochi i luoghi di esposizione di opere d’arte extraeuropee nel nostro continente: tra questi anche il British Museum, definito dall’avvocato britannico George Robertson “il più grande ricettacolo di opere d’arte rubate al mondo”. Tra i capolavori ivi contenuti, i ben noti marmi greci del Partenone, ma anche la Hoa Hakananai’a, una grande scultura in pietra lavica rivendicata dagli abitanti dell’Isola di Pasqua, o i famosi bronzi del Benin, che abbellivano il palazzo reale del re dell’attuale Benin City, in Nigeria. Questi ultimi furono trafugati dalle truppe britanniche nel 1897, e non sono mai più ritornati in patria.

Molti hanno cominciato ad interessarsi al tema degli stolen goods, i beni rubati e custoditi nei musei dei paesi occidentali. Alcuni attivisti hanno agito apertamente, penetrando nei musei e portando con sé le opere, come è accaduto in Francia, presso il museo del Quai Branly. Nel giugno 2020, cinque persone hanno cercato di portare via un palo funerario del popolo bari, risalente al diciannovesimo secolo. L’impresa non è riuscita ed è stata criticata anche dal ministro della cultura francese, Franck Riester, che ha dichiarato non giustificabili simili azioni e ha invitato a proseguire il legittimo dibattito sulla restituzione delle opere ai paesi di provenienza.

Infatti, benché le proteste del movimento Black Lives Matter abbiano rianimato la questione, il dibattito su questo tema in Francia perdura da molto tempo. D’altro canto, i musei pubblici francesi conservano oltre 90.000 opere d’arte dell’Africa sub-sahariana, per lo più saccheggiate o frutto di bottini di guerra durante l’epoca coloniale. Nel novembre 2017, in un intervento presso l’Università di Ouagadougou nel Burkina Faso, il Presidente Emmanuel Macron ha affermato che la restituzione (temporanea o definitiva) del patrimonio artistico africano era una priorità. Di conseguenza, è stato avviato un rapporto sulle opere d’arte africane da Bénédicte Savoy, storica dell’arte e docente al College de France, e da Felwine Sarr, economista, scrittore e professore all’università di Saint-Louis in Senegal.

I due studiosi hanno effettuato un censimento lungo e faticoso, dal quale emerge il fatto che l’85% dell’arte africana non si trova nel suo continente. In seguito, hanno proposto che le restituzioni avvengano tramite accordi bilaterali tra la Francia e i singoli paesi interessati. La Francia si è poi impegnata a rendere al Benin ventisei manufatti sottratti ai tempi della colonizzazione. Le procedure per la restituzione, però, sono molto complesse a causa di alcune leggi francesi. Se un’opera saccheggiata è stata donata alle collezioni pubbliche francesi (come spesso accadeva), essa appartiene di fatto allo Stato francese, che vieta per legge la vendita o la cessione di opere del patrimonio nazionale. Lo schema degli accordi bilaterali aggira il problema, ma la sua attuazione concreta non è affatto semplice.

Inoltre, alcuni studiosi sono scettici su una possibile restituzione, perché ritengono che molti paesi africani non abbiano le possibilità economiche per proteggere adeguatamente questi rari manufatti. Un’altra obiezione riguarda l’instabilità dei governi di molti paesi del continente nero, che potrebbe minacciare la tutela delle opere. Tali dubbi non sono illegittimi: tuttavia, il fatto che la maggioranza dei beni artistici africani si trovi al di fuori del continente rimane un’anomalia mondiale, come ha affermato il già citato Felwine Sarr.

Per capire quanto il problema sia sentito dai giovani attivisti, proviamo a pensare alla nostra reazione se non avessimo opere fondamentali per la nostra cultura, quali la Venere di Botticelli, o il Cenacolo di Leonardo. L’Africa è un continente senza storia, perché quest’ultima è stata saccheggiata. I giovani africani, come ha dichiarato Sarr, hanno diritto al loro patrimonio culturale.

 

 

– Leggi anche: La Francia e la decolonizzazione culturale dell’Africa


 

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