Arte e carcere, carcere e arte. Queste due parole sembrano non andare molto d’accordo. Perché la prima parla di una libera espressione umana, la seconda racconta invece di un luogo fisico, o comunque mentale, che implica soffocamento, chiusura, limite. Eppure, più volte, anche negli ultimi anni, queste due realtà dissonanti si sono incontrate e, addirittura, in qualche modo cercate. Pensiamo per esempio a Banksy e alla sua recentissima opera. Ma prima, vi raccontiamo le fondamenta di questo rapporto artistico.
Come l’arte rinasce dalla gabbia di una prigione
Pensiamo a un esempio italiano. A Roma, nel famoso carcere di Regina Coeli, nel 2016-2017 si è sviluppato un progetto artistico: outside/inside/out. Dietro l’opera le artiste Laura Federici, Pax Paloscia e Camelia Mirescu, che hanno lavorato con i detenuti per dare vita alle pareti interne della struttura con pitture murali e collage. In un’esperienza nella quale, come si legge nel documento di presentazione.
Uomini privati della libertà e artisti trovano un punto d’incontro permettendo al dentro di arrivare fuori.
Che dire poi dei centinaia, anzi migliaia di artisti e scrittori rinchiusi nel corso della storia. Loro, vincolati alle alte mura non si sono spenti, ma hanno continuato a pensare, a immaginare e a creare opere. Come Caravaggio, o Tommaso Campanella. Quest’ultimo, celebre filosofo seicentesco, ha scritto La Città del sole in una prigione sotterranea, dov’è stato chiuso per anni. Ultimo anche Oscar Wilde, ospite della prigione di Reading, nel Berkshire. E non è un caso nominarla, dato che, proprio su di questi muri, è comparsa nei giorni scorsi un’opera di Bansky.
Reading, tra ballate e abbandono
Alte mura di mattoni rossi, una struttura che la fa sembrare un castello medievale. La prigione di Reading fu costruita nel 1844, sulla base dei disegni di Sir George Gilbert Scott. Questo era un famoso architetto e pittore inglese, che ora riposa sotto i marmi di Westminster. Sin da subito la prigione venne utilizzata per lo più per incarcerare i prigionieri nazionalisti irlandesi. Chiusa nel 1920, fu poi usata come base e deposito nel corso della seconda guerra mondiale.
Oggi l’edificio è quindi disabitato, ma conserva un forte valore storico. Anche per la vicenda di Oscar Wilde, che trascorse nel carcere di Reading due anni, da novembre 1895 a maggio 1897. Durante la prigionia scrisse il De profundis e, poco dopo essere uscito, il famoso racconto The Ballad of Reading Gaol, proprio ispirato all’esperienza di detenzione. Come lo scrittore riporta tra le righe:
Il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità (De profundis)
E proprio all’arte di scrivere, ma anche al valore del passato, si è legato anche il famoso artista di strada dei nostri giorni. Il suo intervento sui muri della prigione non poteva così passare inosservato.
Il Create Escape di Banksy
Come a voler mantenere vivi i mattoni rossi e le stanze fredde e umide del carcere del Berkshire, è apparso nelle scorse settimane un murale. L’opera raffigura un uomo, con indosso la tipica divisa a strisce, intento a calarsi dall’alto muro. Il suo sguardo è rivolto al suolo, meta agognata ma ancora lontana. E al termine della lunga corda fatta di lenzuola affiora una macchina da scrivere. L’intenzione è chiaramente di richiamare Wilde e le sue opere.
Create Escape, realizzato sempre di notte per evitare sguardi indiscreti, è ispirato anche a un famoso programma televisivo: Joy of Painting, condotto dall’artista Bob Ross. Lo ha confermato lo stesso Banksy, firmando l’opera con la scritta “Joy of Painting with Bob Ross & Banksy” e riportando la cosa su Instagram.
Come Ross insegnava ai telespettatori l’arte di dipingere, così anche l’artista misterioso insegna. Ma apparentemente una cosa diversa: il valore dell’evasione anche grazie all’arte.
Un gesto di solidarietà e sostegno per l’arte
Dai cittadini di Reading l’opera di Banksy è stata vista anche come un gesto di sostegno per salvare la prigione. Questa è stata definitivamente abbandonata nel 2013, per poi essere messa in vendita dal governo inglese nel 2019. All’inizio sembrava destinata all’acquisto di un gruppo immobiliare che, dopo un ridimensionamento, ne avrebbe fatto appartamenti. Dopo il fallimento dell’accordo, il municipio di Reading ha però proposto l’idea di trasformare il vecchio, famoso carcere in un luogo di cultura, trasformandolo in un centro artistico.
Un’idea che all’apparenza può sembrare paradossale se pensiamo a un carcere che diventa libera espressione d’arte e apertura. Ma è in fondo la stessa idea del progetto outside/inside/out. Tale campagna, quindi, ha trovato non solo il sostegno della cittadinanza, ma anche di molti personaggi famosi. Tra questi anche l’attrice Natalie Dormer (Il Trono di Spade) e la celeberrima collega Judi Dench. Oggi, dunque, anche in seguito all’intervento dell’artista di Bristol, sembra possa diventare realtà molto presto.
Intanto non è passato neanche un mese e l’opera è già stata tristemente vandalizzata, sintomo di come la pervasività mediatica tragga componenti positive e negative.
Zehra Doğan, l’arte dalle carceri turche
Oltre Banksy, però, c’è anche un’altra artista meritevole di attenzione per la sua indagine artistica sul tema delle prigioni. Dal 16 novembre 2019 all’8 marzo 2020, infatti, si è tenuta a Brescia, nella cornice del Museo di Santa Giulia, una mostra intitolata Avremo anche giorni migliori. L’occasione è stato il Festival della Pace e la protagonista l’artista Zehra Doğan, una figura che, ancora una volta, lega arte e carcere.
Mi sono stati inflitti due anni e dieci mesi solo perché ho dipinto bandiere turche su edifici distrutti. Ma il governo turco ha causato questo. Io l’ho solo dipinto.
In carcere, insieme ad altre donne, ha fondato il quotidiano Ozgur Gundem Zindan. Le opere esposte alla mostra di Brescia sono nate proprio durante il periodo di detenzione.
Simbolo e corpo: libertà femminile
In quelle sessanta opere troviamo espressa con forza un’esperienza di lotta. In carcere, infatti, l’artista non ha mai cessato la propria attività. Ha costruito immagini con materiale di recupero, col caffè, con resti di cibo, solo qualche volta con inchiostri, raramente reperibili, insieme alle compagne detenute.
Al centro, il corpo femminile, sintetizzato simbolicamente esaltandone alcune componenti. Spesso il contesto è quello di una rappresentazione politica di scene di guerra, avendo, come dichiara l’artista stessa, come riferimento costante la narrativa del dolore di Picasso. Ma al posto della devastazione inflitta dalle bombe, in Guernica, Doğan raffigura un’immenso uccello capace di straziare con becco e artigli la carne innocente.
In carcere nascono opere contro la violenza
Così, proprio dentro il carcere, luogo vincolato sin dalla struttura alla violenza e alla repressione, si è sviluppata un’esperienza e sono nate immagini contro la violenza. Scatti vivi, trasfigurati, dolorosi. Veri e propri spaccati di morte e sofferenza che gridano alla liberà. Non a caso, a Zehra Doğan Banksy ha dedicato una sua opera sul Bowery Wall di Manhattan. Al centro della raffigurazione l’artista turca che, dietro le sbarre, impugna la sua arma più potente: una matita.
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