Politeismo: Greci e Romani a confronto

Il termine politeismo, che oggi viene utilizzato per descrivere la “forma di religione caratterizzata dalla venerazione e dal culto pubblico di più divinità”, è in realtà frutto di un pensiero esterno alla stessa religione politeista, poiché tanto i greci quanto i romani non ebbero mai la percezione di adorare “tanti” dei, ma semplicemente di onorare “i” loro dei. Questo contrasto tra l’uno e il molteplice nasce solo con la comparsa delle religioni monoteiste. È infatti lo scrittore giudaico Filone di Alessandria che introduce il termine polytheos per descrivere la pluralità delle divinità a confronto con l’unicità del dio giudaico.

Se la nozione di Politeismo è generalmente piuttosto nota, ciò che invece costituisce un’interessante curiosità è che tale culto plurale si declinava in modi diversi in base al popolo che a questo tipo di religione si dedicava. Spesso si tendono ad affiancare gli dei olimpii greci alle divinità romane, e senza dubbio i secondi hanno accolto molti lasciti dei primi, ma le due sfere cultuali e il modo in cui a queste si approcciavano i credenti erano assai diversi.

Certamente entrambe le culture hanno sempre guardato al mondo divino come a una sorta di “specchio riflettente” del mondo umano. Che questo avesse una funzione cognitiva è più che chiaro, in quanto grazie all’umanizzazione dell’”altro”, era notevolmente più semplice poter pensare, raccontare e comprendere il mondo degli dei. Rendere concreto quello che non si conosce a fondo o che sembra troppo lontano dalla normalità permette infatti di rendere il tutto un poco più familiare e verosimile. Non a caso, greci e romani si appellavano proprio alla cosiddetta regola della verosimiglianza.

In Grecia

I Greci hanno scelto di rappresentare l’Olimpo attraverso due mezzi fondamentali: il linguaggio genealogico e le relazioni di parentela. Questi due strumenti consentono infatti di intessere una rete dinamica di ascendenze e discendenze all’interno di un nucleo divino stabile dai margini meno nitidi. Esempio di questo è la celebre Teogonia di Esiodo, in cui il poeta traccia all’interno del poema un complesso intreccio di relazioni parentali e filiali. Se la famiglia celeste canonica è composta dalla coppia sovrana Zeus-Era, con i fratelli Ades, Poseidone, Estia e Demetra, è certo tuttavia che non si esaurisca qui. Afrodite, Ares, Ilizia, Efesto, Ermes, Dioniso, Eracle, le Ore e le Parti sono solo alcuni degli altri componenti di una famiglia divina in versione più allargata.

Fin dall’inizio dell’opera, Esiodo spiega l’evoluzione del mondo in termini di nascite e derivazioni: Chaos, Gaia ed Eros sono le tre forze generatrici primordiali da cui nascono numerose altre componenti del mondo. Mentre Chaos produce Notte ed Erebo, Gaia fa nascere da sé i Monti, il Ponto (il mare), e Urano (il cielo). Con quest’ultimo Gaia si unirà dando vita ai Ciclopi, agli Ecatonchiri, ai Titani e a numerosi altri figli. Tra questi, Crono e Rea (fratello e sorella) si uniscono e danno vita così ai membri principali dell’Olimpo che tutti conoscono: i sei dei canonici. Ecco così che l’articolazione del mondo procede di pari passo con la generazione della famiglia divina.

La stabilità del mondo divino da qui in poi è merito delle capacità di Zeus, sovrano astuto e previdente, che grazie alla sua metis (intelligenza astuta appunto) riesce a controllare l’ordine e a guadagnarsi l’appoggio delle altre divinità. La tecnica che risulta più efficace a questo fine consiste nella ripartizione degli onori (timai) e cioè nel suddividere fra gli dei tutti i vari ambiti di competenza e le sfere d’azione. Anche dal punto di vista spaziale si può osservare una suddivisione dei compiti tra i tre fratelli cronidi: a Zeus il cielo, a Poseidone il mare e a Ades gli inferi mentre la terra e l’Olimpo rimangono in comune.

Questo potere equamente ripartito e l’assenza di una tassonomia costrittiva, rende il politeismo greco molto fluido e malleabile, a differenza dell’ortoprassia rigidamente caratterizzata dei credenti che sono tenuti a adorare i loro dei con metodi e regole codificati.

A Roma

I Romani possedevano una complessa articolazione di divinità e questo perché oltre a quelle più propriamente indigene, si aggiungevano quelle dei popoli con cui essi venivano in contatto (per la maggior parte Greci) e non meno importanti erano quelle che gli stessi pontefici avevano l’autorità di creare (nuove divinità foggiate in base alle necessità del popolo romano). Ciò vale a dire che ogni singola azione e ogni momento della vita di un individuo erano sorvegliati da particolari dei a essi dedicati.

Se nell’antica Grecia oltre al modello familiare si sommava quello della Polis, nell’Urbs non poteva mancare una forte analogia tra la città celeste e la civitas romana per eccellenza. Gli dei, in tal modo, diventavano veri e propri cittadini di Roma. Il processo cui erano soggetti è stato infatti etichettato sotto il nome di “romanizzazione” che, di conseguenza, implica anche una “modernizzazione”: gli dei venivano prima resi più “umani”, inserendoli nel contesto cittadino e quotidiano che ogni cives conosceva, dopodiché venivano loro assegnate le funzioni, i ruoli e le caratteristiche tipiche di qualunque membro della comunità.

Ne conseguiva che, come i Romani erano suddivisi in gerarchie sociali ben delineate, così anche gli dei potevano essere nobili oppure plebei, ma mai schiavi, in quanto la condizione di schiavitù era troppo bassa per essere applicata a delle divinità “ospiti” del mondo terreno. Avevano costumi, quartieri e persino i loro protettori. Quest’ultimi potevano essere sia i più noti (come Giove, Venere, Nettuno etc) sia i cosiddetti indigitamenta, in altre parole gli dei tecnici, quelli che presiedevano ad attività e momenti particolari ben più circoscritti. Per quanto riguarda i nomi specifici degli dei tecnici, va ricordato che l’etimo dei loro teonimi era di fondamentale importanza per risalire alla funzione che tale dio svolgeva: Deferunda, Adolenda, Commolenda, Occator, Sarritor, Sterculinius, Sator e così via.

Il sistema di rappresentazione romano delle divinità era quindi complesso, ma si inseriva in un contesto che permetteva più facilmente di categorizzarli in base a compiti e influenze. Era una società “che assegna responsabilità a differenti professionisti, che agiscono come funzionari competenti”

Le due religioni a confronto: somiglianze e differenze

Si può quindi considerare la concezione romana del divino come sottostante al modello socio-familiare dell’Urbs, mentre quella greca proponeva innanzitutto trame narrative e genealogie familiari.

Se i Romani prediligevano il socio-morfismo con una divisione dei membri divini tanto nella loro collocazione gerarchica, quanto nell’ampiezza del loro campo d’azione, i Greci permettevano più fluidità all’interno delle sfere d’influenza. Non a caso queste potevano talvolta sovrapporsi.

Entrambe le popolazioni accostavano alle divinità scelte dalla teologia fisica (ovvero i selecti, quelli più conosciuti), dei minuti che avevano potere sulle cose, sul singolo momento (indigitamenta).

Ancora, Greci e Romani si servivano di metafore spaziali per collocare i membri del mondo divino su base verticale: per i primi potevano dividersi in ouránioi (celesti), chthónioi (terrestri) e katachthónioi (inferi), con poi diverse declinazioni per indicare gli uni o gli altri in base all’autore che si occupava di descriverli; analogamente i secondi riconoscevano negli dei celesti i superi, nei terrestri i medioxumi e, scendendo, gli inferi. Si nota cosi una distinzione alto-medio-basso.

Seguendo il filo di queste tradizioni rappresentative, non si potrà quindi fare a meno di evidenziare il carattere profondamente civico delle due religioni: “gli dei della comunità, sia essa una famiglia o una città, costituiscono a loro volta una comunità di dei, in interazione costante e regolamentata con le diverse strutture della “città terrestre”.

 Questo implica somiglianze e differenze. Infatti se, come si è detto, in Grecia è l’albero genealogico proprio di un dio a determinare le sue qualifiche e le relative relazioni con gli altri dei, così come il suo diritto a rientrare nel Pantheon, per i Romani si osserva un criterio familiare con connotazioni più sociali: la famiglia è vista come nucleo facente parte di una comunità in cui ogni individuo dà il proprio contributo per raggiungere un obiettivo comune.

Inoltre, se la narrazione mitica riveste un’importanza fondamentale nel politeismo greco, in quanto è caratterizzato dall’accezione non di racconto favoloso e inventato, ma di un vero e proprio discorso solenne la cui autorevolezza è indiscutibile, nel mondo romano gli dei sono meglio qualificati attraverso le loro azioni di controllo nei confronti degli uomini.

Un po’ di lessico

Timai: si tratta degli onori cultuali che le comunità di greci rendevano agli dei che adoravano secondo gli usi e le leggi prescritte dal costume tradizionale.

Eusebeia: era l’atteggiamento corretto da mantenere verso le divinità, consistente in rispetto, ammirazione e timore, ma senza sfociare in eccessi di superstizione e “ritualismo ossessivo”.

Hieros: è il sacro, ciò che possiede la divinità o che a essa è legata, ma non è una qualità del divino in sé. Sono sacri i sacerdoti, i santuari, gli animali sacrificali che alle divinità vengono consacrati.

Dikaios: quello che è giusto secondo la legge umana.

Hosios: quello che è giusto secondo al legge divina.

Teonimo: “termine con cui sono indicati i nomi propri di divinità”.

Epiclesi: epiteto che si accosta al teonimo per meglio definire la figura del dio che si invoca, date le numerose possibili declinazioni che questo può assumere. Gli dei, infatti, in quanto potenze, spaziano tra ambiti anche molto diversi fra loro. Da ciò deriva l’erroneità di certe apposizioni odierne comuni che tendono a ridurre considerevolmente l’influenza di ciascuno di loro. Così le epiclesi permettono di discernere, tra le tante possibilità, quella più adatta al contesto.

Campo d’azione: ambito in cui una certa divinità può intervenire (a favore o a sfavore). Più banalmente, si conosce l’esempio di Venere come dea dell’amore, malgrado quest’etichetta sia alquanto limitativa poiché la dea in questione era più propriamente legata alla pulsione in sé, che sì, caratterizza l’eros e la sessualità, ma anche lo scontro dei corpi più in generale. Non a caso il compagno di Venere si individua in Ares, ossia il dio della guerra: ciò che accomuna entrambe le divinità è l’agire “nella sfera della mixis, sono cioè associate all’incontro/scontro dei corpi e alla pulsione che lo determina”. Si vede chiaramente, quindi, come un singolo dio non rappresenti una singola istituzione o sentimento o realtà naturale, ma diversi aspetti di tutte queste unite insieme che si intrecciano e talvolta si sovrappongono.

Modo d’azione: si intende lo stile, propriamente la maniera che contraddistingue ciascun dio nel mettere in atto le sue competenze. Anche in questo caso non è difficile che i vari “stili” si rilevino caratteristici di più figure divine.

Poeta: a differenza di quanto ci si aspetterebbe, il poeta non era solo un cantore di gesta gloriose o favolosi miti, bensì un interprete “del mondo e degli dei” che traduceva “in immagini e racconti il comune sentire relativo alle divinità”. La sua autorità era legittimata direttamente dagli dei che gli concedevano di “presentificare l’invisibile e dargli forma”.

Culti locali: accadeva che in base alla località in cui venivano adorati gli dei, questi potessero essere preferiti per alcune loro particolari capacità e non era raro che accanto a queste figure di spicco ci fossero anche membri divini minori, legati alla terra che ospitava il loro culto. Questi provenivano dal territorio circostante e potevano essere gli elementi naturali come fiumi, monti, e così via.

Antropomorfismo degli dei: nelle narrazioni si sono verificati frequenti episodi in cui gli dei, per interagire con gli umani, hanno assunto sembianze più vicine alla concezione umana. Dire solamente “sembianze umane” risulterebbe scorretto, poiché, in un modo o nell’altro, la grandezza e magnificenza degli dei era sempre in grado di trapelare. Quale che fosse la forma assunta, le divinità tentavano di calarsi nel mondo umano, ma senza mai riuscirci fino in fondo e, infatti, la loro vera identità veniva non di rado svelata.

In sintesi, come si è potuto vedere, molte caratteristiche della religione greca sono passate a quella romana, ma fare del politeismo una grande vasca in cui gettare confusamente diverse popolazioni sarebbe un errore non da poco. È logico pensare che le somiglianze fossero inevitabili, dato il forte contatto tra i due mondi antichi, ma altrettanto legittimo è riconoscere che culture diverse portano senz’altro a culti diversi e di conseguenza anche a modificazioni destinate ad ampliarsi sotto molteplici aspetti.

Quello che va tenuto presente in questo caso (e in tutti gli altri casi qualora ci si dedichi allo studio approfondito di una qualsiasi cultura o religione) è che il luogo e gli assetti sociali, così come le istituzioni e la realtà in cui è calato un popolo, non possono fare a meno di influenzare ogni ambito della vita di un individuo, specialmente se il popolo in questione non conosce il concetto di laicità. La religione rivestirà a questo punto il ruolo di maggiore considerazione all’interno di tale società: intesserà rapporti, creerà gerarchie, plasmerà la quotidianità della gente diventando imprescindibile dalla vita di ognuno.

FONTI

M. Bettini e W. M. Short (a cura di), Con i Romani, un’antropologia della cultura antica antica, Il Mulino, 2014

Umberto Eco (a cura di), L’Antichità, Encyclomedia Publishers, 2012

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