Pinkwashing: la nuova frontiera dell’ipocrisia

Il colore degli ultimi anni è il rosa.

Ma attenzione, non parliamo del rosa come colore preferito delle persone. Ma come strategia di marketing. Il temine pinkwashing è nato dall’unione di due termini: “pink”, rosa, e “whitewashing”, ovvero imbiancare o nascondere. Questo è il nome di un fenomeno, e atteggiamento, di natura solidaristica nei confronti delle donne e, più in generale, dell’emancipazione femminile.

Principali protagonisti di questo fenomeno sono le aziende che, attraverso il pinkwashing (letteralmente: coprire con il rosa), intendono “ricoprire” i loro prodotti con un packaging dal colore rosato per mostrarsi solidali e attenti nei confronti del mondo femminile. Nonostante questa presa di posizione molte aziende dimenticano di essere parte del problema che dicono di voler combattere.

Le origini del pinkwashing: il greenwashing

Il pinkwashing prende spunto dal greenwashing, il cosìddetto “ecologismo di facciata”. Definibile come:

Strategia di comunicazione volta a sostenere e valorizzare la reputazione ambientale dell’impresa mediante un uso disinvolto di richiami all’ambiente nella comunicazione istituzionale e di prodotto, non supportato da risultati reali e credibili sul fronte del miglioramento dei processi produttivi adottati o dei prodotti realizzati.

Entrambe queste pratiche sono delle tecniche utilizzate dai brand per attirare l’attenzione su di sè e “accaparrarsi” una fetta sempre più ampia di pubblico, mostrandosi attenti e scrupolosi su temi più che mai attuali.

Il termine pinkwashing fu utilizzato per la prima volta dalla Breast Cancer Association in occasione della campagna Think Before You Pink®. Un’iniziativa che intendeva raccogliere dei fondi per le donne malate di cancro al seno.

Intorno al 1991 iniziarono a diffondersi i primi fiocchi rosa, quelli che tutti noi conosciamo come simbolo della lotta al tumore al seno. Inizialmente di un rosa pesco, il fiocco cambiò colore, diventando un rosa più acceso. Ma come avvenne questo cambiamento? E sopratutto, chi ne fu l’artefice?

La risposta è una: le aziende. Molti brand americani iniziarono ad applicare sulle confezioni dei loro prodotti il fiocco rosa facendo credere alle persone che fosse in atto una raccolta fondi per sensibilizzare il tema del tumore al seno. Anche packaging di famosi cosmetici furono contrassegnati dal famoso simbolo, nonostante si venne a scoprire che alcuni ingredienti contenuti in questi prodotti erano associati al rischio di cancro.

Il pinkwashing oggi

Al giorno d’oggi questo termine sta ad indicare tutte le iniziative portate avanti dalle più svariate aziende a favore delle cause legate al mondo femminile esclusivamente per ottenere un ritorno economico e, sopratutto, di immagine.

Il pinkwashing si è rivelato quindi un’ottima strategia di marketing che ha puntato sull’inclusività delle persone, trasformando ciò in un modo per vendere i propri prodotti.

Non è altro che una mercificazione delle battaglie femministe. Le quali sono sempre più sminuite a favore di un tornaconto economico. Questo non fa altro che “affossare” ancora di più quelle battaglie che i brand invece dicono di sostenere. Una tra tutte l’iniziativa contro lo standard bellezza. Promuovere la diversità è diventato un esempio perfetto di pinkwashing.

Esempi di pinkwashing

Prima di parlare degli esempi che abbiamo a proposito di questo fenomeno è bene specificare che il termine “washing” è possibile accostarlo ad altre numerose parole. Una tra le tante la parola “rainbow” che dà vita al termine rainbow washing, ossia le iniziative volte a supportare, in maniera apparente, la comunità LGBTQ+.

Esempi appartenenti a questi fenomeni ce ne sono davvero tantissimi ma andiamo ad analizzare quelli più conosciuti.

  • Il caso Barilla

Tutti ricorderanno le famose parole del presidente della multinazionale alimentare Barilla ai microfoni di Radio24.

Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri.

Queste le parole di Guido Barilla che furono prontamente riviste dallo stesso imprenditore. La presa di posizione successivamente virò sul versante opposto tanto che, oggi, Barilla è al primo posto nella classifica della Human Right Campaign, associazione per i diritti degli omosessuali che viene stilata ogni anno dal Corporate equality index. Non si sa con certezza se questo cambio di rotta sia stato dovuto ad un vero pentimento dell’azienda o per una questione legata, appunto, al rainbow washing.

  • Il caso KFC

Ha fatto moto discutere anche il caso legato all’azienda americana KFC, azienda di fast food specializzata nel pollo fritto. Nel 2010 venne annunciata una collaborazione tra la catena di fast food e Komen, un’importante associazione che si occupa di lotta contro il cancro al seno. In questa occasione il packaging di KFC si tinse di rosa, facendo partire una raccolta fondi finalizzata ad aiuti concreti contro il tumore al seno. Quattro i milioni che furono conteggiati al termine della raccolta e devoluti all’associazione.

Tutto molto bello, se non fosse per il fatto che i soldi furono devoluti a Komen ancora prima di iniziare la raccolta fondi. I soldi, dunque, sarebbero stati donati a prescindere. Il ricavato fu destinato ad accrescere le casse del fast food. L’iniziativa servì solamente per aumentare la visibilità e popolarità del marchio. Non solo. Il cibo spazzatura venduto da KFC , come quello venduto da qualsiasi altro fast food, è considerato uno dei principali responsabili dell’obesità. Questa è considerata uno dei fattori che aumentano il rischio di ammalarsi di cancro, compreso quello al seno. Tutto questo andò ad impattare anche sull’immagine dell’associazione Komen, che venne accusata di “allearsi” con uno dei principali promotori di stili di vita rischiosi per tutti.

Viviamo in un mondo dove la voglia di solidarizzare con le minoranze è sempre più forte. Ma in quanti riescono a farlo davvero?

Tutte le battaglie sono sovrastate da un sistema capitalistico che “risucchia” tutti i buoni propositi. Non è comunque tutto da disprezzare in quanto magari il messaggio che passa attraverso pubblicità pinkwashing, sarà assorbito da chi si limita ad osservare. Se invece questo si tradurrà in un acquisto, si ha la speranza che, in questo, ci sia un minimo di consapevolezza.


[on_half_last]

Credits

Copertina

Foto1

Foto2

Foto3

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Un commento su “Pinkwashing: la nuova frontiera dell’ipocrisia”