“Old Boy”: il capolavoro di Park Chan-Wook

Prima di Bong Joon-ho, prima del geniale Snowpiercer e del fenomeno Parasite. 16 anni fa usciva al cinema Old Boy, film del 2003 diretto dal genio creativo del grande Park Chan-Wook e da molti riconosciuto come la pellicola capace di esportare la settima arte sudcoreana in tutto il mondo. Quentin Tarantino ne parlò come “il film che avrei voluto fare”; un cult immortale applaudito dalla critica e vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria al Festival del Cinema di Cannes nel 2004.

Per la gioia dei cinefili Old Boy, rimasterizzato in 4k sotto la supervisione del suo visionario regista, è tornato nelle nostre sale in data 9 giugno, distribuito da Lucky Red. Una nuova entusiasmante versione di un vecchio capolavoro, un’occasione unica per ammirare sul grande schermo uno dei masterpiece cinematografici del nuovo millennio, l’opera maestra di un autore di prim’ordine. Un’opera che, tratta dall’omonimo manga scritto da Nobuaki Minegishi e Garon Tsuchiya, unisce maestria tecnica e narrazione, in un thriller a sfumature noir dalla straordinaria potenza espressiva.

Fiato sospeso

Un uomo come tanti, una formica nella moltitudine del genere umano, in apparenza insignificante, sconosciuta. Un uomo segnato da un tragico destino, unico nella sua drammaticità. Quindici anni di prigionia, quindici anni in una cella, una camera d’albergo di second’ordine senza sbarre, ma priva di porte. Quindici anni senza sapere il perché, senza conoscere il motivo di una tortura psicofisica di tale portata. Un tempo infinito, fatto di televisione, ravioli al vapore, masturbazione e disperata solitudine.

Ridi, e il mondo riderà con te. Piangi, e piangerai da solo.

Quindici anni dopo Oh Dae-Su non è più uno dei molti. Il tempo e la gabbia lo hanno cambiato, hanno indurito la sua scorza e acuito rabbia e desiderio di vendetta. A guidarlo un’interminabile serie di quesiti: chi è stato? per quale ragione? Dove si trova? Domande pronte a condurlo sulla via della verità, attraverso gli scoscesi sentieri della memoria e di quell’ineluttabile flusso temporale che si fa ponte tra passato, presente e futuro.

Non porgere l’altra guancia

Oldboy (korean poster) | the second film in Park Chan-wook's… | Flickr

Vendetta. Una parola di otto lettere può forse bastare a racchiudere il senso di 120 minuti di pellicola? Forse, forse no.

Perché Old Boy è un puzzle complicato, una costruzione barocca, sfarzosa, esagerata. Una pellicola violenta che non vuole nascondere la crudeltà del proprio volto. Un film cruento, disturbante, dallo stridore penetrante e acuto. Una malefica mistura di sangue e dolore, senza alcuna traccia di tregua o perdono.

Eppure Old Boy è una storia semplice, forse la più comune delle storie, atavica nella sua celebrazione della lotta umana, del desiderio di prevaricazione e di risarcimento, dell’orgoglio ferito che cerca risanamento nella lacerazione della rivalsa. La più sincera manifestazione filmica dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria, là dove filosofia e finzione narrativa trovano un  doloroso quanto realistico punto di incontro.

La vendetta come denominatore comune, come catarsi, architrave di una struttura circolare, dai molteplici punti di vista e dal costante ribaltamento degli stessi. Un lungo e buio tunnel al termine del quale non si intravede luce. Solo l’illusione di una bianca purificazione spirituale, un sorriso, un ghigno e poi…l’oscurità.

Scrittura, tecnica, sguardi

Secondo capitolo della celebre trilogia della vendetta elaborata da Park Chan-Wook, Old Boy è certo il migliore prodotto dei tre, in grado di raccogliere una tematica forte ed incisiva per elevarla all’ennesima potenza. A colpire il pubblico di 16 anni fa e ad impressionare i più recenti fruitori è senza dubbio un intreccio narrativo costruito a regola d’arte, capace di mantenere lo spettatore in un’atmosfera di crescente tensione, all’interno di un climax ascendente che semina indizi lungo il percorso e prepara sapientemente il terreno alle esplosive rivelazioni dell’ultima intensa mezz’ora.

Sia un granello di sabbia che una roccia, nell’acqua affondano allo stesso modo…

Ad impreziosire la materia sono le doti registiche del suo autore, nonché le interpretazioni di un cast in grado di rendere giustizia ad un racconto in cui quest’ultima non sembra poter trovare spazio. Park Chan-Wook alterna primi e primissimi piani, arricchendo la propria regia con particolari e dettagli che permettano di focalizzare l’attenzione sui sentimenti dei suoi personaggi, sulla loro evoluzione psicologica, sulla loro trasformazione. Notevole anche il piano sequenza che inquadra Oh Dae-Su fare strage dei suoi carcerieri, senza dimenticare alcune straordinarie scelte di montaggio, decisive nella costruzione del mistero e nelle fasi della sua risoluzione.

Menzione d’onore per Choi Min-sik, Yoo Ji-tae e Kang Hye-jeong, coprotagonisti di un racconto di lacerante tribolazione, tre magnifici pezzi d’argilla modellati dalle mani di Park Chan-Wook in un vaso maligno, contenente l’orrore della vendetta umana. Sullo sfondo una melodia agrodolce, delicata quanto pervasiva, malinconico orpello di una struggente pellicola all’insegna della sconfitta, dello sconforto, della rassegnazione.

 

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