Mario Martone ha portato recentemente nei teatri il Filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza (1924-1996), attraverso un adattamento scenico di Ippolita di Majo. Forse a questo libro e alla sua autrice, dal 1969 a oggi, non è stata dedicata tutta l’attenzione che si meritavano.
La memoria nella ricostruzione di un’identità
Il Filo di mezzogiorno è incentrato sugli incontri tra la scrittrice e il suo psicanalista, Ignazio Majore. Dopo aver tentato il suicidio nel 1962, Goliarda Sapienza venne ricoverata nel reparto psichiatrico del Policlinico di Roma e perse la memoria a causa di ripetuti elettroshock. Il compagno dell’epoca, “Citto” (Francesco Maselli, regista di film e documentari), riuscì a farla dimettere, a patto che vedesse ogni giorno un analista.
Lo scopo delle sedute era recuperare le sue facoltà e la memoria. Questo si traduce nel testo in una confusione tra passato e presente che si fondono indissolubilmente: la narrazione dei ricordi interrompe la conversazione e il dialogo cerca di inseguire le memorie. Intanto un senso di spaesamento assale il lettore, che assiste alla ricostruzione di un’identità.
È un processo doloroso, che dà vita a un raccontare frammentario, viscerale e vero. I piani temporali si sovrappongono in una psiche a pezzi, quasi in un eterno presente sempre in fieri. Man mano che la coscienza viene riconquistata è come se tutto accadesse nel qui e ora: l’infanzia dell’autrice a Catania, la sua giovinezza, la borsa di studio all’Accademia d’Arte Drammatica a Roma, la clandestinità in un convento durante la guerra, una volta che i fascisti hanno arrestato il padre socialista.
La scrittura
La scrittrice resta in analisi per tre anni. Instaura con Majore un rapporto che va oltre il transfert psicanalitico e dichiara diverse volte di essersi innamorata di lui. La paziente sconvolge il terapeuta che arriva a definirsi nel Filo di mezzogiorno un nevrotico che conosce un po’ meglio degli altri le nevrosi, inizia a sospettare di essere masochista. Alla fine Majore abbandonò la professione.
L’autrice ritrovò se stessa nella scrittura. Infatti si rende conto di aver cominciato a scrivere una notte tempo prima. Le sue poesie, racconti e appunti dicono di lei più di quei discorsi, come lei stessa afferma. Al momento non aveva ancora intrapreso del tutto quella strada. Questo avvenne con i primi due romanzi di un ciclo autobiografico, Lettera aperta (1967) e il Filo di mezzogiorno (1969), che possono essere come consequenziali o come libri a se stanti.
Fino a quel momento Goliarda si era occupata di tutt’altro: era stata attrice di teatro; aveva lavorato con Citto Maselli nel cinema, girando una serie di documentari nell’Italia post Seconda guerra mondiale e fascismo; aveva scritto sceneggiature. Angelo Pellegrino nella prefazione al Filo di mezzogiorno afferma: “Se c’è scrittrice che ha fatto di tutto per non diventarlo, questa è stata Goliarda Sapienza.”
Diagnosi clinica e figura materna
All’inizio il Filo di mezzogiorno ha ottenuto la fortuna maggiore come testo di psicoanalisi. Infatti ha attirato da subito l’attenzione di psicologi e psicanalisti.
L’autrice è un’abbandonica, ovvero soffre di abbandonismo, patologia che provoca comportamenti nevrotici per il timore di essere abbandonati. L’autrice tende a spersonalizzarsi per compiacere gli altri. Dal punto di vista narrativo rivede in Citto, mentre lui cerca di stare vicino a una persona che lo riconosce a stento, se stessa di fronte alla madre pazza appena uscita dal manicomio:
Anche io non dissi niente a Maria quando tornò a casa e mi chiese cosa era successo.
“Dimmi la verità, Goliarda: cosa ho avuto?”
“Diabete, mamma, diabete.”
“Cosa ho avuto, Citto?”
“Intossicazione renale, Iuzza.”
Majore ritiene che i problemi della paziente derivino dalla sua situazione familiare atipica: una moltitudine di fratellastri maggiori e una madre che l’ha trascurata. A questo si connetterebbe anche la sua mancanza di aggressività, infatti compiacere può essere utile alla sopravvivenza in un ambiente simile. Quando però lo psicanalista la accusa di essere passiva, Goliarda si definisce morale, perché evita di sovrastare gli altri.
Le relazioni dell’autrice con gli altri esseri umani sarebbero regolate dai sensi di colpa. Tende a idealizzare le sue amicizie femminili, tra cui il suo rapporto con Nica, Titina e Haya, attribuendo loro proprie qualità. Tutto si svolge all’ombra della figura ingombrante della madre, Maria Giudici, un’intellettuale socialista. La scrittrice da bambina credeva fosse normale che una madre passasse tutta la giornata sui libri e non in cucina. Si sente anche in età adulta schiacciata da questo modello inimitabile, sa che non sarà mai alla sua altezza.
Assimila dalla madre anche parte del suo odio verso gli uomini, che poi influenza i suoi comportamenti con loro e la scelta di un compagno come Citto, dotato di “una dolcezza e una mancanza di volgarità che le hanno permesso di abbandonarsi a lui”. Eppure in seguito, a proposito dei problemi della paziente con il genere maschile, dice: “Ma dopo? Dopo dieci anni, quando ha ritentato di entrare nella realtà? Al primo incontro, la vecchia paura verso gli uomini seppellita in lei, ma non risolta, è riaffiorata”.
Un’autrice dalla modernità sorprendente
L’autrice anticipò tratti dell’autofiction e del memoir più recente. Con grande sensibilità e sincerità si mosse in controtendenza rispetto al resto del Novecento, che con l’età finì per ritenere un secolo di ideali mancati. Nella conclusione del Filo di mezzogiorno manifesta il suo diritto alla morte; è quasi l’inno alla vita di una suicida:
Se morirò svenata dalle ferite aperte di un amore perduto non più richiuse, se morirò pugnalata dalla lama affilata di uno sguardo crudele vi chiedo solo questo: non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate, non la catalogate per la vostra tranquillità, per paura della vostra morte, ma al massimo pensate – non lo dite forte la parola tradisce – non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto.
Scoprire il motivo per cui è in cura dal “medico dei pazzi”, che fino a poco prima credeva il medico dei bambini, è per lei una liberazione: “Un fiore di gioia che sbocciava nel mio petto e mi accecava col suo profumo intenso di gelsomino. Lui parlava, ma io non potevo ascoltarlo. Non ero stata pazza: avevo voluto morire”.
La modernità di Goliarda fu sorprendente nel panorama sociale e letterario italiano del secolo scorso. Era stata qualunque cosa, una pluralità; forse era stato drammatico il tentativo di essere incasellata in un’identità precisa. Era stata un’anarchica; aveva fatto persino l’impagliatrice di sedie, seguendo un principio della famiglia socialista, basato sull’utilità di imparare qualsiasi cosa.
A teatro…
Donatella Finocchiaro riporta in vita Goliarda Sapienza con un’interpretazione autentica nello spettacolo di Martone. Il sipario si apre in una scenografia che consiste in un’unica stanza: un salotto. Lì mutamenti di luci e pannelli scorrevoli riescono a rendere i fantasmi che la mente di Goliarda traduce in visioni surrealistiche. L’adattamento di Ippolita di Majo si basa sullo sdoppiamento della stanza in due: il luogo dell’inconscio e il luogo della realtà sensibile.