Nel 2011 su Avvenire compariva il titolo “Scuola al debutto. Il primo giorno che vorrei”, un titolo che oggi, tra nostalgia e tante ipotesi, fa un po’ sorridere. A scriverlo è stato Alessandro D’Avenia, uno scrittore, ma anche un insegnante, che ricorda bene come era e come desirava che fosse la scuola.
Sono passati esattamente dieci anni da quell’articolo e dal 2019 lo scrittore tiene sul Corriere della Sera la rubrica Ultimo Banco, in cui parla di scuola in modo diretto e dall’interno. A distanza di tempo è possibile leggere non solo come quest’uomo desiderava che fosse la scuola, ma anche come, da insegnante, ora la vede, la vive e come, forse, la cambia. Quell’articolo in cui presenta il “suo” primo giorno di scuola inizia così:
Che cosa avrei voluto sentirmi dire il primo giorno di scuola dai miei professori o cosa vorrei che mi dicessero se tornassi studente? […]
Devi studiare? Sarà difficile? Bisognerà impegnarsi di più? No, no grazie. Lo so. […]
L’insegnante continua dicendo che vorrebbe sentire qualcosa di diverso, qualcosa che riesca a incuriosirlo. Ma che cosa? Qualcosa che abbia a che fare con la vita di tutti i giorni e che quindi riguardi se stesso o il mondo in cui vive. Chiede inoltre da studente, ma con la consapevolezza di un insegnante, di aver prova che lo sforzo richiesto – perché sì, studiare richiede uno sforzo – sia necessario per conoscere un qualcosa di desiderabile e indispensabile.
Dopo diversi anni, in un articolo della rubrica del Corriere, questo tema viene ulteriormente sviluppato dallo scrittore. L’articolo si intitola Elogio all’estremismo, è una denuncia alla mancanza di realtà che si può trovare nelle scuole, mancanza dovuta spesso a dei filtri, a pensieri impacchettati che privano dell’esperienza. Un testo, un’opera, è percepito come indispensabile solo se è possibile farne esperienza diretta, solo in questo modo lo si può sentire parte della vita di tutti i giorni e come un qualcosa di vero. D’Avenia scrive:
Sostituito da letture antologiche e ideologiche, il testo diventa un pretesto per dettare cosa devo pensare di qualcosa e non un’occasione per spiazzare il mio modo di pensare. Mi batto da anni per la lettura integrale e ad alta voce: meno manuali inutilmente costosi e più classici. […] Abbiamo barattato la realtà con le informazioni: sappiamo poco di tutto, ma non sappiamo vivere meglio, perché l’arte di vivere dipende dalla ricerca della verità non dal numero di informazioni immagazzinate.
Oggi il rischio è la realtà apparente che non stimola azione né pensiero. Per questo è importante quello che lo scrittore dice ne Il primo giorno che vorrei: è indispensabile ciò che genera esperienza, è indispensabile tutto ciò che spiazza. Quello che annoia, che distrae, sono le informazioni futili, i pensieri che anestetizzano le menti. Prosegue dicendo che il vero incontro con la realtà provoca sempre una re-azione, ma per incontrare questa realtà è necessario quell’estremismo che non dia ragione, ma che chieda ragione, che spiazzi e che metta in discussione. D’Avenia tocca anche un altro punto importante, che è ancora una volta fortemente legato a ciò che distingue l’insegnamento – quello vero, che dovrebbe essere “estremo” – dalle informazioni. Questo passaggio è tratto da Diffido dell’istruzione, articolo della rubrica Letti da rifare:
Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste insegnamento in differita, ma solo in diretta.
Anche in questo caso, seppur da un’altra prospettiva, viene ribadita la sterilità dell’informazione in sé, la sua incapacità di fornire e regalare a chi apprende quell’estremismo, in realtà necessario, per render viva l’informazione stessa. É l’insegnante, per D’Avenia, a generare conoscenza, o meglio, a poterla generare, perché non tutti gli insegnanti e i maestri ne sono capaci: l’elemento chiave per lo scrittore è un amore non sentimentale. Nascerà così un interesse nei confronti di chi si approccia in questo modo alla realtà: è il modo di porsi che rende possibile la conoscenza che, a sua volta, quando arriva al destinatario, rinnova quell’amore che le ha permesso di diffondersi, verso se stessa e verso chi ne ha reso possibile la diffusione.
Tornando all’articolo più remoto, nella parte finale si trova un invito rivolto agli insegnanti, l’invito è quello della sfida. La sfida ha in sé la potenzialità di far evolvere, di far migliorare. Quella della scuola è una sfida estrema, forse la più estrema in assoluto, è una sfida che deve essere costruttiva e, al contempo, deve essere in grado di aprire le porte alla libertà, la libertà del pensare, del conoscere, dello scegliere.
Sfidatemi, mettete alla prova le mie qualità migliori, segnatevele su un registro, oltre a quei voti che poi rimangono sempre gli stessi. Aiutatemi a non illudermi, a non vivere di sogni campati in aria, ma allo stesso tempo insegnatemi a sognare e ad acquisire la pazienza per realizzarli quei sogni, facendoli diventare progetti. Insegnatemi a ragionare, perché non prenda le mie idee dai luoghi comuni, dal pensiero dominante, dal pensiero non pensato. Aiutatemi a essere libero.
Quello di D’Avenia è un continuo invito, che va evolvendosi negli anni, alla scoperta e alla curiosità. Un invito estremo che vuole mostrare realtà nette e che non fa sconti. Proprio così, con il suo modo di estremo di insegnare, riesce a raccontare una scuola, ma più in generale un modo di diffondere conoscenza, che non lascia indifferenti ma cerca reazioni, risposte e pensieri.
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